Cookies' Blog

Cookies' Blog

martedì 26 novembre 2013

lunedì 10 giugno 2013

Ali di babbo

Leggerezza, semplicità, magia, sono gli ingredienti di questo piccolo romanzo che descrive, attraverso gli occhi di una quattordicenne, una Sardegna selvaggia che non vuole cambiare.
Abbandonata dal padre in tenera età, la ragazzina percepisce la sua presenza in una dimensione onirica e fantastica, nelle “ali di babbo” che assumono lenzuola, coperte, stoffe, mosse dal vento.
L’adolescente tiene un diario, in cui annota pensieri, avvenimenti che le accadono attorno; curiosa, osserva e descrive le persone che la circondano.
Tra queste, c’è Madame, la stramba vicina, proprietaria di terre e di un albergo di quattro camere che affitta ai turisti e che, con ostinazione, si rifiuta di vendere ad avidi costruttori, che vorrebbero stravolgere quell’angolo di paradiso con un incantevole sbocco sul mare, trasformandolo in un posto turistico. Così facendo però, Madame si priva di diventare ricca e fare una vita migliore. Madame è così chiamata perché sogna di andare a Parigi e, nel frattempo studia il francese.
Vive però dei pochi soldi che guadagna con l’affitto e dalla vendita dei prodotti agricoli che riesce a ricavare dalla sua terra.
La ragazzina osserva Madame, i suoi amanti, scene di sesso, gli amori un po’ strambi e i riti magici di Madame per farli stare in piedi. Madame crede nella magia e la dispensa in modi personali e approssimativi allo scopo di rendere la gente più felice, perché "senza la magia la vita è solo un grande spavento".

© Marzia Pasticcini
Lunedì 10 giugno 2013

domenica 9 giugno 2013

Mal di pietre

La complicità, la condivisione degli ideali e l'amore passionale, tanto sognato, arriva un po' tardi nella vita della protagonista, una donna sarda di quarant'anni, e in maniera inaspettata durante un soggiorno in uno stabilimento termale in Continente, per curare il "mal di pietre", i calcoli renali. Non ha figli perché la malattia di cui soffre la fa abortire durante i primi mesi di vita.
È in questo ambiente che la donna troverà il coraggio di tirare fuori l'emotività che le ha condizionato talmente la vita da farla apparire “matta”, perché essere persone troppo sensibili non rientra nella normalità.
Già a trent'anni il matrimonio le era apparso come una possibilità sfumata, perché la sua emotività faceva fuggire tutti i pretendenti eccetto un uomo, arrivato a Cagliari nel '43 dopo che la guerra gli aveva spazzato via la casa e la famiglia.

Vive nella casa della ragazza che sposerà per sdebitarsi con la famiglia di lei per l'ospitalità ricevuta.
I due coniugi non si amano, si danno del voi, non si conoscono neppure, non c'è molta confidenza tra i due sposi che se ne stanno nel letto l’uno distante dall’altro. Il marito soddisfa le sue esigenze sessuali nel bordello e allora la moglie, al solo fine di risparmiare i soldi delle marchette per comprare il tabacco della pipa che lui fuma, si sostituisce alle prostitute, come loro senza amore: “Così voi fumate la pipaNessuno mai ho visto fumare la pipa. ...Non dovete più spendere i soldi per le donne della Casa Chiusa. Quei soldi dovete spenderli per comprarvi il tabacco e rilassarvi e fare la vostra fumata. Spiegatemi cosa fate con quelle donne e io farò uguale”. (pag. 24).
Però l'amore vero, che fa battere il cuore, è quello per il Reduce, un uomo colto, passionale, incontrato durante il soggiorno alle terme, il cui ricordo non l'abbandona più e che l’unico modo per accettare la realtà è quello di trovare una via di sfogo, nell’idealizzare ciò che è il nostro massimo desiderio. E lo sfogo della donna è la scrittura, poesie e pensieri che lei scrive da sempre di nascosto, ma che aveva trovato il coraggio di condividere i suoi pensieri con il Reduce perché anche lui aveva una passione: suonare il piano, e la comprendeva.
Ed è attraverso la scrittura che la nipote (la voce narrante) viene a conoscenza della storia d'amore della nonna.
È per avere scoperto lettere d'amore infuocate che la ragazza aveva scritto ai suoi pretendenti che un giorno la madre, la bisnonna della narratrice, l'aveva aspettata in cortile con un nerbo di bue, pronta a colpirla fino a farla sanguinare e a farle venire le piaghe: “ i pretendenti andavano via perché nonna gli scriveva poesie d'amore infuocate che alludevano anche a cose sporche e che sua figlia stava infangando non solo se stessa ma, ma tutta la famiglia. E continuava a colpirla, a colpirla e a urlarle: 'Dimonia! Dimonia!' e a maledire il giorno in cui l'avevano mandata in prima elementare e aveva imparato a scrivere” (pagg. 11-12) . “D’altronde la nonna amava scrivere e aveva un quaderno, una sorta di diario, un quaderno nero bordato di rosso”.

© Marzia Pasticcini
Domenica 9 giugno 2013

domenica 17 marzo 2013

La camera azzurra


È arrivato il turno del terzo libro di Simenon: “La camera azzurra”. Un romanzo perfetto che ha contribuito alla Simenonite, contratta di recente e spero mi abbia lasciato sufficienti anticorpi letterari.
Seppur non originale come tema, la tecnica dell'autore nel disseminare informazioni con salti temporali a partire da flashback al momento presente della narrazione da parte del protagonista è sufficiente a spingere ad una lettura senza sosta, per vedere se i sospetti del lettore trovano conferma.
In sole 153 pagine, vediamo che pagina 1 è già successo molto e a pag. 51 è già accaduto tutto.
Tony vive una vita banale senza grandi scosse emotive. È sposato con Gisèle, una casalinga tranquille e ordinaria. Hanno una bambina: Marianne. Apparentemente una vita perfetta: ha una casa, un lavoro, una moglie Gisèle che ama e una figlia che lo fanno sentire sicuro e tranquillo.
Ma qualcosa manca nella sua vita: l'emozione che trova tra le braccia di Andrée, ex compagna di classe con la quale inizia una storia passionale che si consuma nella camera azzurra di un albergo del centro gestito dal fratello.
A complicare le cose c'è il fatto che anche Andrée è sposata, e Tony pian piano inizia a mentire, a complicarsi la vita per organizzare gli incontri clandestini con l'ansia di venire scoperto.
L'ambiente in cui vivono, non è di poco conto: la provincia francese dove tutti sanno tutto di tutti anche se fingono di non sapere.
Tony, preso dalla passione, non riesce a rendersi conto che Andrée è un'amante ossessiva che non rinuncia facilmente al progetto di una vita futura insieme. Quando se ne rende conto, è già troppo tardi, Tony vorrebbe troncare la relazione, ma Andrée ha decisamente altri propositi.

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 17 marzo 2013

mercoledì 27 febbraio 2013

Effimera felicità


Il Treno è il secondo romanzo di Georges Simenon che leggo. In una parola: bellissimo. Descrive la Storia che irrompe nella vita di gente comune, senza chiedere loro il permesso.
Il protagonista è Marcel Féron, un artigiano, riparatore di radio, il cui laboratorio occupa il piano terra del medesimo stabile dove vive con la famiglia – una moglie al settimo mese e mezzo di gravidanza e una figlioletta di appena quattro anni.
È il mese di maggio del 1940, i nazisti sono alle porte, minacciano i confini della Francia. Féron, come molti suoi compaesani, è costretto ad abbandonare la sua casa per mettersi in salvo con tutta la famiglia.
Sovraccarico di bagagli si dirige alla stazione dove prenderà d'assalto uno dei pochi treni ancora disponibili dopo che un ordine di evacuazione ha incalzato molti dei suoi compaesani a partire senza una destinazione precisa, se non mettersi in salvo sciamando verso sud con destinazione La Rochelle.
Costretto a viaggiare su un carro bestiame in compagnia di altri profughi che, come lui, il destino ha fatto deragliare dalla quotidianità, viene separato dalla moglie e dalla figlioletta che viaggiavano in un altro convoglio.
Durante il tragitto, il treno sosta più volte come abbandonato in mezzo alla campagna, subisce un bombardamento areo tedesco, viene più volte smembrato: il convoglio dove viaggiavano la moglie e la figlioletta è stato staccato dal treno, durante la notte e diretto in tutt'altra destinazione.
Sempre di notte, nella promiscuità dello spazio angusto, in mezzo a compaesani divenuti profughi, ogni convenzione sociale viene abbandonata e si consumano bisogni fisiologici e rapporti carnali.
Quando Marcel incontra la bella sconosciuta, nel suo stesso convoglio, non ci sono che sguardi tra loro ed è come se la sua famiglia fosse stata risucchiata nell'oblio.
Un po’ alla volta, senza che si siano raccontati le reciproche storie, i due diventano inseparabili, finché, durante la prima notte che passano l’uno accanto all’altra sulla paglia ammucchiata per terra, confusi fra altri corpi sconosciuti, accade l'immaginabile per Marcel, un tipo timido, mediocre e pudico. Da perfetti sconosciuti fino a poche ore prima, che ignoravano l'esistenza l'uno dell'altra danno inizio ad una passione amorosa senza limiti, una sorta di deragliamento emotivo che gli isola dal resto del mondo (l’occupazione tedesca, i convogli di sfollati, il centro di accoglienza che li ospita insieme ad altre decine di profughi), serrati in un universo tutto loro fatto di desiderio, di passione erotica, disperazione ed effimera felicità.
Per poche settimane sfuggono alla routine immersi in una bolla di amore e di passione erotica senza freni come solo può accadere quando si è in guerra: «Vivevamo un tempo di attesa, fuori dallo spazio, e io divoravo quei giorni e quelle notti con ingordigia».
Marcel nel suo diario confessione scrive: «Ero ingordo di tutto, dello spettacolo mutevole del porto e del mare, dei barconi da pesca di diversi colori che salpavano in fila indiana con l’alta marea, del pesce che veniva sbarcato nelle ceste o nelle cassette, della folla nelle strade, dei diversi aspetti del campo e della stazione».
«Ero ancora più affamato di Anna», racconta Marcel, «e, per la prima volta, nella mia vita non mi vergognavo dei miei desideri sessuali. Anzi, con lei era diventato un gioco che mi sembrava assolutamente puro. Ne parlavamo con gioia, con candore, inventando tutto un codice, adottando un certo numero di segnali che ci permettevano, in pubblico, di comunicarci i pensieri segreti».

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 27 febbraio 2013

domenica 10 febbraio 2013

Leggere e Scrivere: una malattia salvifica

«Non fa mai niente. Continua a leggere».
«D'altro non sa fare niente»
«È l'occupazione più inattiva che ci sia».
«È pigrizia».
«Legge, invece di...»
Tutti questi discorsi mi suonano familiari. Mi hanno rimproverato anche a me, da sempre di leggere “invece di... fare le pulizie, lavare i piatti della sera prima, di andare a fare la spesa, di lavare e di stirare i panni...”.
E ciò è bastato a rendermi simpatica e vicina questa autrice che con conoscevo.
In sole cinquantatré pagine è condensata la vita di una donna ungherese, esule, rifugiatasi nella svizzera francese di cui non conosce la lingua.
Nel 1956 – a soli 21 anni e con una figlia appena nata – è costretta a lasciare il suo paese di origine per evitare le persecuzioni politiche da parte dell'Armata Rossa, intervenuta per debellare la rivolta popolare contro l’invasione dell’Ungheria da parte dell'Unione Sovietica.
In Svizzera, Agota è costretta ad affrontare tante difficoltà, la prima delle quali: l'impossibilità a farsi comprendere in una lingua a lei estranea: il Francese. Ma lei pare non perdersi d'animo; affronta con grande coraggio la povertà, la fame, il freddo e la fatica del lavoro come operaia. Ma è proprio durante il lavoro ripetitivo in fabbrica che inizia a comporre poesie: “Per scrivere poesie la fabbrica va benissimo, si può pensare ad altro, e le macchine hanno un ritmo regolare che scandisce i versi. Nel mio cassetto, ho un foglio e una matita. Quando la poesia prende forma, prendo nota. La sera metto tutto a bella in un quaderno.” (pag. 41)
La letteratura nelle sue forme di scrittura e lettura è una malattia: “Leggo. È come una malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli occhi: giornali, libri di testo, manifesti, pezzi di carta trovati per strada, ricette di cucina, libri per bambini. Tutto ciò che è in caratteri di stampa.” (pag. 9), ma è una malattia salvifica, che dà un senso alla sua vita. e la trasformerà in una scrittrice di successo.
Tuttavia Agota continua a chiedersi: “Come si diventa scrittori?” (pag. 43).
La risposta interessa anche a noi amanti della scrittura:
“Prima di tutto, naturalmente, bisogna scrivere. Dopo di che bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno. Anche quando si ha l'impressione che non interessi mai a nessuno. Anche quando i manoscritti si accumulano nei cassetti e li si dimentica, pur continuando a scriverne altri.” (pag. 45)
Come sarebbe stata la mia vita se non avessi mai fatto  corsi di scrittura?
Non lo so, forse meno ricca di stimoli rispetto a quelli che ho ricevuto in questi anni. La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi modo i miei racconti onirici.

© Marzia Pasticcini
10 febbraio 2013

lunedì 28 gennaio 2013

Sprofondare insieme fino all'estremo limite dell'abisso

I complici è il primo romanzo di Georges Simenon che leggo e mi dispiace non averlo scoperto prima, tanto ero condizionata dall'immagine televisiva del Commissario Maigret. Ma i romanzi con i commissari non mi stimolano più di tanto, non mi sono mai piaciuti molto. Anche se per qualcuno, quella che sto per dire sarà una sottigliezza – una questione di lingua o di colore (intendo il colore giallo o nero della copertina) – per me non lo è affatto: alla ricostruzione dei fatti, ho sempre preferito l'atmosfera noir dei momenti che precedono la tragedia. Una tragedia inaspettata che accade e travolge la vita e il destino di persone normali che vivono una vita ordinaria senza alti né bassi, ignari del fatto che stanno per attraversare una soglia. Una soglia che li condurrà inevitabilmente verso un baratro. E quando poi se ne accorgeranno, sono ben oltre, in caduta libera nell'abisso.
E in caduta libera è Joseph Lambert, il protagonista, dalla coscienza sporca che tenta di nascondere pure a se stesso l'incubo e il senso di colpa che lo tormenta.
Joseph Lambert è un imprenditore, un borghese di provincia, stanco della moglie e un gran donnaiolo, ha una relazione con la sua segretaria-amante: Edmonde Pampin, diventata sua complice dalla sera in cui, guidando a zig zag con la mano destra fra le cosce di lei, sente dietro di se il clacson di un pullman che sta riportando a Parigi i bambini di una colonia estiva. Lui – con l'auto piazzata in mezzo alla carreggiata, sotto la pioggia sferzante – sterza cercando di raddrizzare la Citroen, ma non ci riesce, l'asfalto è scivoloso. Il pullman che procede a gran velocità riesce a passare lo stesso.
I due non si voltano, nella loro freddezza vanno avanti, non si fermano,neppure quando lo specchietto retrovisore rimanda la scena del pullman che si schianta contro un muro in un rogo mostruoso.
Edmonde rappresenta per Joseph la via di fuga dalla sua quotidianità.
Il rapporto di intimità instaurato tra loro non è dato solo dal piacere carnale, fisico, immediato. Joseph crede di aver trovato nella ragazza "ciò che aveva sempre cercato per tutta la vita” e che nessuno, né la famiglia, né la moglie Nicole, gli aveva mai dato.
"Il gioco segreto tra i due aveva le sue regole, i suoi segnali, i suoi riti consacrati”.
Dice il narratore: "Non erano innamorati,ma solamente complici in un mondo diverso, e quel mondo assomigliava più a quello dell’infanzia che non a un mondo maledetto”.
Con lei desidera sprofondare fino all'estremo limite dell'abisso, ha fame di lei, del suo sesso e delle fasi misteriose del suo piacere (p 129), gli resta solo questo, quello che era un loro diritto, prendere il volo, saltare in un'altra dimensione (p 132).

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 28 gennaio 2013

sabato 26 gennaio 2013

L'arte del sottrarre

Mentre stavo ascoltando fahrenheit 451, sono stata rapita dalle parole di Luca Ricci – giovane autore italiano (pisano) contemporaneo. Ho alzato il volume e l'ho sentito parlare di gioco di specchi e rimandi letterari: nel suo nuovo libro, "Mabel dice sì",  il suo intento era di costruire un racconto che fosse il rovescio (di genere femminile) del «Preferirei di no» de “Lo scrivano Bartleby” di Melville.
Un ex studente al Conservatorio sogna di diventare un virtuoso del pianoforte, ma per mantenersi accetta di lavorare come portiere di notte. La cosa interessante è il fatto che l'autore si è divertito a sottrarre informazioni ai personaggi, tacendo quel che loro fanno dopo il lavoro (dopo che il riflettore si è spento), e dirigendo l'attenzione sulla semplice struttura della storia.
Qui il protagonista, che parla in prima persona, non può fare a meno di osservare ciò succede intorno: i colleghi, i clienti, le porte di camere segrete chiuse a chiave, la figura evanescente di Mabel che dona in giro carità e sesso a chi lo chiede e ne ha bisogno; il tutto è raccontato in prima persona, filtrato attraverso gli occhi del protagonista.
Togliere informazioni sui personaggi, per Ricci significa voler esplorare i limiti di ciò che è possibile narrare. Addirittura i personaggi secondari appaiono più veri e più interessanti dei protagonisti, perché semplicemente osservati, filtrati dallo sguardo vigile di chi sa cogliere significati da gesti e azioni che con sguardo distratto non saremmo in grado fare.
La poetica che sottosta al libro è infatti la storia che deve stare in primo piano, soprattutto quando  si tratta di racconto; nel romanzo è più facile incorrere nel rischio di accumulare informazioni e questo, di conseguenza, devia l'attenzione, portandola sui personaggi, a volte a scapito della storia.

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 26 gennaio 2013

domenica 13 gennaio 2013

Letteratura Partecipativa sull'orlo del piacere

Si parla di “letteratura performativa” in questa storia di appena cinquanta pagine. Non è un romanzo e neppure un racconto. È una lettera destinata ad una giovane donna in viaggio in treno da Parigi a La Rochelle. Su precise istruzioni, compra un copia di "Le Monde" di quel Sabato 20 luglio e sale sul treno. Si siede nel posto prenotato, apre il giornale. È una lettera per lei, una lettera così  provocante e sensuale da poter finire in mano ai 600.000 lettori di “Le Monde”.
La voce del narratore si esprime in seconda persona, un tu confidenziale che le detta le regole del gioco: un invito a pensare, visualizzare e compiere gesti erotici, dove l'eccitazione non sta tanto nel gesto in se stesso, ma nel suo procrastinarlo, per fermarsi sull'orlo del piacere.
Il narratore le impone di fermarsi nella lettura, per un tempo preciso, scandito dall'orologio, ad un'ora e minuti precisi che corrispondo a una tappa del percorso: “Se tutto è andato per il verso giusto, se hai rispettato i tempi indicati, tu stai leggendo questa pagina oggi sabato 20 luglio verso le ore 16.15, e il treno è appena ripartito dopo la fermata di Poitiers.”.
Leggere è come annullare lo spazio e il tempo, portando in contatto scrittore e lettore in un tempo altro, un eterno presente: “Io l'ho scritta a fine maggio, prima di partire per la Russia. Ho scritto a “Le Monde” di fissare la data di pubblicazione”.
Ogni buona storia ha un tempo e uno spazio ben definito. Scrivere e leggere è in definitiva come viaggiare: cosi come al treno che sta giungendo a destinazione, rimangono tre quarti d'ora di viaggio, allo scrittore 5000 caratteri dei 35000 concessi.
Una lettura partecipata da altri lettori di "Le Monde" che viaggiano nel medesimo convoglio e che condividono la medesima esperienza della destinataria della lettera.  Sono anche loro i protagonisti: i viaggiatori di quel treno TGV Parigi-La Rochelle delle ore 14:45 di quel sabato 20 luglio descritto nella storia che stanno leggendo e vivendo, come lo sono del resto anche i lettori del romanzo.
Troppi personaggi ha questa storia, lamenta ad un certo punto il narratore, più avanti nel testo, che non riuscendo più a controllare, decide di lasciare la presa. Però la storia procede comunque e lui, lasciandosi trasportare dall'immaginazione, dà loro libero arbitrio e la richiesta-invito per un sequel performativo e/o interattivo.

® Marzia Pasticcini
Certaldo, 13 gennaio 2013