<<Il pavimento si muove!>> gridò la bambina. Accorse la sorella maggiore. Effettivamente aveva ragione. I cubi, a seconda di come li guardavi, apparivano ora pieni, ora vuoti; brillavano sotto lo sguardo. Erano vivi!
Elisa chiuse un occhio, poi chiuse l’altro, come le luci intermittenti dell’albero di Natale.
Chiudeva il destro ed il cubo si spostava a sinistra; chiudeva il sinistro e questo schizzava via a destra. Apriva entrambi gli occhi e il cubo riappariva nella sua posizione centrale. Ora una scatola piena, ora un pozzo vuoto.
Le scarpette oltrepassarono la soglia, indugiarono timide sui cubi grigio-perla che parevano muoversi sotto i piedi.
<<Ma… sono veri… eh Marina?>> la frase le morì sulle labbra, mentre con lo sguardo tentava di cogliere un palpito di vita dai due esseri posti di guardia ai piedi della scalinata di marmo.
Due Leopardi facevano da guardia a quella strana casa dal pavimento vivente.
Sembravano veri, anche se le due bimbe non osarono sincerarsene. Presero a salire incerte, un passo alla volta, la mano sullo corrimano di ebano tirato a lucido con la cera d’api.
Oltrepassate che ebbero le due belve, dopo che due o tre scalini le distanziavano da loro, presero a correre, trattenendo il fiato.
Giunte sul ballatoio, si sporsero oltre la ringhiera intarsiata; i riccioli biondi fuoriuscivano dalle colonne cesellate dai fianchi molli.
Giù in basso, le belve non parvero fare caso a loro. Non girarono la testa. La loro testa lucida era rivolta in avanti verso la porta di ingresso, a guardia e protezione della casa. Le bambine presero il lungo corridoio buio su cui si aprivano cinque porte. Si spinsero oltre bisbigliando sottovoce.
La porta che conduceva alla soffitta aveva un pannello di vetro semitrasparente da dove filtrava la luce a rischiarare quel corridoio buio.
L’aprirono. La prima rampa di scale era occupata da una macchina da cucire di ferro nero posta di fronte ad una piccola finestra che si apriva su un cortile interno racchiuso da case. Era primavera i rami ancora spogli avevano iniziato a mostrare pallidi smeraldi, gemme preziose. La bambini procedevano lentamente un gradino alla volta, in silenzio, portandosi un dito di fronte alla bocca quasi un monito per non destare chissà quale entità dormiente che occupava quel luogo impervio.
Vi aveva trovato lassù rifugio oggetti dimenticati, per incuria o perché superflui che la casa aveva rifiutato di ospitare. Oggetti nuovi, un tempo, erano invecchiati lassù, sommersi da polvere che era andata sedimentandosi in strati trasformandosi in reperti archeologici della memoria.
Avrebbero certo preferito la mano esperta di qualche esploratore attempato. Certo che la curiosità infantile poco si confaceva con il rispetto e la cura per le cose del passato. Sicuramente ad un archeologo di professione, tale curiosità infantile sarebbe stata una spinta propulsiva, accompagnata però dalla delicatezza con cui conduceva lo scavo, lasciando il piccone per la spatola e poi per il pennello per dissotterrare tesori di immenso valore ma di altrettanta fragilità.
<<Schhhh … >> il silenzio fu rotto dal monito di Elisa e dal tubare di due tortore sotto la gronda ùù grù grù ùù grù grù ù grù grù ùù grù grù ù 21 secondi di pausa e poi riprendeva, esattamente dopo 21 secondi, il suo canto, gronda ùù grù grù ùù grù grù ù grù grù ùù grù grù ù era come un orologio finiva sempre con un ù e poi silenzio, troncava a mezzo quel suo canto. Con un ù solitario.
Il tesoro….da qualche parte doveva essere pur esserci.
Le bambine rimasero immobili sul primo gradino della seconda rampa ad attendere che l’eco dei loro passi si placasse. Avrebbero ripreso il cammino al prossimo canto dei piccioni. <<colombi!>> corresse Elisa.
<<Sono colombe, le ho viste hanno le piume bianche>>
<<<Ma i piccioni e le colombe non sono la stessa cosa?>>
<<Le colombe sono più belle>> riprese Marina, <<è perché sono bianche!>> precisò.
Una luce filtrava da sotto una cancellata fin sul pianerottolo dell’ultima rampa, ad ogni gradino, in salita il tubare dei piccioni, o delle colombe come voleva Elisa, si faceva più forte.
La piccola mano grassottella vi si poggiò sopra, una leggera spinta e dall’oscurità della soffitta ecco che il sole si fece loro incontro in tutto il suo fulgore. Gli occhi ridotti a fessure, la mano a schermare quella lama tagliente.
<<Guarda!>> gridò Marina.
<<Gli scacchi, come a casa nostra>> le fece eco Elisa indicando il pavimento con il ditino.
<<Guarda la ringhiera!>> disse Elisa, pronta ad infilare la testa, temette Marina, tra quelle colonne di marmo bianche, cesellate coi fianchi larghi, come i birilli che facevano cadere con le palle di plastica colorata, solo che questi erano bianchi, bianchi come le colombe . tutto era bianco nella casa di Marianella, anche il nero delle mattonelle più scure, inondato di luce, perdeva un po’ della sua austerità.
Per questo mese l’affitto era stato pagato. Lorena ripose il portafogli nella borsa. Le solite formalità dopo i convenevoli di circostanza. No il caffè non lo avrebbe preso, ringraziò. Fece per volgersi verso le bambine, ma queste non c’erano.
La soffitta…pensò.
La borsa di plastica, svuotata del suo contenuto, faceva bella mostra di sé. Verdure non più freschissime, sparpagliate in disordine nel pulviscolo dorato del pomeriggio, giacevano a terra frammiste a detriti ambrati: piccole zolle di terra, e, un tramestio leggero, un lieve fruscio appena percettibile, foglie secche calpestate da piedi grassottelli di bimbo, accompagnava un lieve invisibile movimento.
Nella scia rilucente e umida, trascinava a fatica una lumaca la sua casetta. Dove fuggire, come nascondersi da quelle ingorde manine, come proteggersi da quelle grida argentine? Le piccole antenne si ritraevano al caldo contatto.
Passi sulle scale vennero in suo soccorso. Passi lenti accompagnati da un suono secco ritmato: un… due… tock… un… due… tock. si avvicinavano.
Le bimbe ristettero. Un attimo di esitazione, le orecchie tese, pronte a cogliere ogni minimo rumore.
La porta della terrazza si spalancò. Lo sguardo inquadrò l’orlo d una veste lunga che lasciava scoperte solo le punte dei piedi, si posò poi sulla mazza sormontata da una mano grinzosa inanellata; si diresse su una spilla e salì sempre più su per fermarsi oltre lo sguardo austero di Marianella dietro il riflesso di due lenti legate ad una catenella ed andò a posarsi su un nido di capelli grigi raccolti in uno chignon sulla sommità della testa.
Un colpo di tosse richiamò la loro attenzione a mo’ di rimprovero. Si limitò a questo il rimprovero. Non poteva certo sostituirsi alla madre, l’educazione spettava a lei, ma ciò bastò a mettere le cose in chiaro: il rispetto per le cose e le case degli altri.
<<Quando ritorniamo a casa di Marianella, mamma?>> chiese Elisa.
<<il prossimo mese>> rispose la madre già prefigurandosi come avrebbero fatto ad andare avanti fino a tale data.
<<Però fatemi il piacere di non toccare niente stavolta, le avete sporcato la terrazza e le avete buttato in terra tutta l’insalata… poi ci fa pagare anche quella, già si paga abbastanza l’affitto….>>
<<che cos’è l’affitto, mamma?>> interloquì Elisa.
<<sono i soldi che si pagano per la casa!>> si intromise Marina.
<<Ma io l’ho chiesto alla mamma!… ma perché si deve pagare la casa… ma se la ce l’abbiamo?>>
<<Si, amore la dobbiamo pagare, la casa non è nostra?>>
<<È della padrona… è di Marianella, noi per abitarci, dobbiamo pagare l’affitto.>>
<<Ma, Marianella la casa ce l’ha >> insistette Elisa.
<<Si piccina>> le carezzò i capelli la madre << Ma lei è la padrona, ha tante case dove ci vive la gente.>>
Fu una grande delusione, ma in compenso un rifugio segreto loro due l’avevano: la soffitta.
<<Bambine siete state in soffitta?>> era una domanda cui non era necessario formulare una risposta verbale. Era sufficiente dare uno sguardo alle due bambine per capire in un solo istante dalle tracce di polvere sui vestiti e le macchie nere sul naso e sulle guance.
Come prudeva la polvere, e le ragnatele che si attaccavano i capelli.
Marina che soffriva di rinite allergica non riusciva a smettere di strusciarsi il naso il dorso della mano e quegli occhi cerchiati di rosso erano eloquenti.
Ma lassù c’era un tesoro che le attendeva: lame di luce penetravano dalle impannate della piccola finestra del mezzanino e proiettava una griglia dorata ora su un ombrello dalle stecche rotte, su un cappello di paglia attaccato ad un chiodo, su vecchi libri coperti da una coltre di polvere.
Sull’ultimo piano della soffitta si aprivano quattro cancellate una sulla sinistra che dava sopra il loro appartamento, due frontali, ed una, sulla destra dell’ultimo gradino sicuramente sovrastava la casa di Emilia. Era un cunicolo buio stretto e lungo come il lungo corridoio sottostante che andava a finire proprio sopra lo stanzino proibito: quello che veniva tenuto sempre chiuso; quello con i forellini sulla porta un cerchio traforato come il filtro della macchina del caffè, per fare passare l’aria; quello che non raggiungevi mai con le tue gambe piccine da quanto era lontano; ogni passo che facevi, pareva che quella porticina si allontanasse all’orizzonte; quello che non appena pensavi di avercela fatta … a toccare la maniglia… ecco che ci trovavi la mano di Emilia serrata sopra, quello che nascondeva la scatola di latta con dentro i pezzi degli scacchi: i re e le regine, le torri e i cavalli; quello che una notte trovasti socchiuso, una strana luce filtrava dal riquadro della porta, ti avvicinasti piano, piano in punta di piedi, stavolta il corridoio non si allungò la porticina non si allontanò all’infinito, ma rimase salda al suo posto e dietro di questa, una volta spalancata la scatoletta di latta… a mezz’aria… sospesa… come il fiato … e l’urlo che ti morì in gola… con la bocca spalancata e gli occhi sgranati inquadrasti quell’uomo vestito di nero un abito cucito a pelle. L’uomo sivoltò. Due orbite vuote di guardarono;. uno scheletro bianco dipinto nel nero<<<,…perle di sudore ti imperlavano la fronte… … gocce di . il sudore ti imperlavano la fronte… il cuore si arrestò e ti risvegliasti nel letto… il sudore gelato aveva impregnato ogni cosa:.. il pigiama e le lenzuola avvolte al tuo corpo reso prigioniero.
<<Qui sotto c’è lo stanzino di Emilia>> gridò spaventata la piccola Elisa.
Dei giornaletti attirarono l’attenzione di Marina che con uno strattone riportarono Elisa alla realtà trasciandosela dietro.
<<Il Corrierino dei Piccoli!>> gridarono all’unisono, ma come erano vecchi e mal ridotti… ce n’erano tantissimi.non li contenevano con le loro piccole braccia.
I rossi e i gialli si stagliavano, rischiarati da un raggio di sole, nel nero della soffitta. Li portarono giù per poi risalire per altrettanti tesori.
Un messalino, un libricino di preghiere bianco con la copertina di madreperla. Era la loro bibbia. Un calice ed un piattino d’argento, ossidati dal tempo, per il vino e le ostie, fatte con la midolla del pane, trafugati di nascosto dalla cucina, erano i loro ………..per il sacro rito.
<<Corpo di Cristo!>> si offrì il prete Marina ai piccoli fedeli, chiamati a raccolta, dalla strada, riuniti per la sacra messa.
<<Amen!>> rispose Elisa.
Ma il tesoro più grande non tardò a farsi trovare. Sparirono oltre la cancellata di sinistra, quella che dava sul loro appartamento.
Una vecchia valigia verde di cartone, impolverata, non chiedeva altro che di essere aperta.
Provarono con le forcine che si erano tolte dai capelli. Proprio no! La serratura non voleva proprio scattare.
Si guardarono attorno. Provarono a forzarla con un vecchio cacciavite trovato in un cassetto. Niente!
D’un tratto, lo sguardo di Elisa si posò su una piccozza appoggiata al muro. La prese, la porse a Marina e questa, senza esitazione alcuna, la brandì in aria e giù con due o tre colpi decisi il vecchio cartone non oppose resistenza e cedette. Le mani fecero il resto.
C’erano fogli su fogli. Vecchie carte ingiallite e maleodoranti. L’inchiostro sbiadito portava scritto: cambiale. Ce n’erano a non finire. E poi fattura e ancora fattura. A quel nome, pronunciato a stento dalla bimba più grande, Elisa ebbe un sussulto.
<<Le streghe…., fanno le fatture!>>
<<Ah! Marianella!>> per tutta risposta, le fece eco Marina, mettendosi una mano davanti alla bocca.
Bastò una parola: “Strega”, per evocare una vecchia scopa che si trasformò, nella fantasia, in una mazza sovrastata da una mano raggrinzita, inanellata e un sorriso beffardo.
Bastò quel suono, appena sussurrato “Strega” e nominare l’innominabile a far abbandonare quella mensa di cui i piccoli accoliti, di partecipare, non erano degni.
Fu un tramestio ed un trambusto di scarpe giù per le scale, uno sbatter di porte e grida soffocate.
Quando anche l’ultimo invitato alla mensa del Signore se ne fu andato e di nuovo si fece silenzio, con passi leggeri, gradino dopo gradino, intervallati da un ùù grù grù ùù grù grù ù e l’altro delle colombe, Marina ed Elisa, decise a non darsi per vinte, sussurrarono: <<il Tesorooo!>> accostate a quella valigia sventrata.
Ne venne fuori una scatoletta di latta il cui contenuto rivelò carta moneta di ogni forma e colore. Ce n’erano alcune così grandi che non stavano piegate nemmeno nel borsello della mamma. E monete, trovate in un barattolo di vetro. Ce n’erano tantissime che non aveva mai visto usare dalla mamma. Non ne aveva mi viste di simili, neppure quando la mamma gliene dava per andare al forno giù in strada.
Le sue preferite erano quelle con la spiga di grano, quelle di Elisa, invece, erano quelle con il pesciolino.
Si divertivano a nasconderle sotto un foglio bianco e con le cere sfregate sopra più e più volte, ecco che appariva un pesce rosso, ecco l’oro di un campo di grano mosso dal vento. Potevano percepirne perfino il profumo se chiudevano gli occhi, lo stesso delizioso aroma che, seguito per strada, ti portava dritto fino nella bottega del fornaio.
Rincasarono con il loro prezioso bottino. Quella notte però, stentarono a prendere sonno.
Strisce rosa violacee rigavano la pelle delicata dei glutei e delle cosce. Si potevano persino contare le dita. Cinque dita di una mano aperta marchiate a fuoco.
Ed un pensiero, da dubbio si fece ben presto certezza: anche quella era casa di Marianella.
7 aprile 2010
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©️Marzia Pasticcini
L’Officina del talento