Cookies' Blog

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venerdì 16 marzo 2012

Africa


Le vibrazioni si potevano percepire a pelle. Ad ogni sussulto la polvere si alzava da terra in una nube dorata, un movimento a zig zag e ricadeva giù come il grano lanciato in aria dai contadini per liberare i chicchi preziosi dalla loro camicia di forza.

Era un ritmo che si susseguiva uguale a se stesso, che si protraeva all’infinito, Il rullio dei tamburi sembrava non avere fine. Era andato avanti tutta la notte e la notte prima e quella prima ancora, senza soluzione di continuità. 

Di giorno faceva da sottofondo ai rumori della vita, alle grida dei bimbi, al ciarlio delle donne del villaggio, ai vociare dei mercanti di spezie e di granaglie che si muovevano con i loro bagagli caricati in spalla, alle danze irrefrenabili dei cacciatori che rendevano grazie alla madre terra per il cibo loro donato.



Come il pulsare del sangue nelle vene andava avanti ininterrotto, in modo fluido e automatico, senza che la mente ne avesse coscienza, così, allo stesso  modo, il tam tam dei tamburi di giorno faceva parte della vita. Era come respirare, un atto vitale ma involontario, ovattato di cui non si è coscienti fino in fondo. Come lo stomaco digerisce e l’organismo sceglie e separa ciò che nutre da ciò che deve essere scartato, affidando ad un’entità autonoma la direzione dell’orchestra senza che l’individuo ne sia consapevole, così andava avanti la vita di giorno nel villaggio.


Ma la notte era tutt’altra cosa. Il fuoco doveva essere tenuto acceso, alimentato, vivo. Il guardiano del fuoco Farouk lo alimentava con lo sterco secco delle bestie feroci che i bimbi del villaggio raccoglievano di giorno nella savana.

Avanzava un piccolino, inghiottito dalla vegetazione alta che ondeggiava mossa da una brezza leggera che da poco si era levata. Portava con sé gli odori degli uomini, parlava alle bestie, diceva loro dove era il cibo.

Dovevano muoversi sotto vento, guardarlo in faccia il respiro del drago, sfidarlo per ingannare le bestie.

Il bimbo fu richiamato dagli anziani del gruppo. Doveva stare alle regole, non era consentito allontanarsi del cerchio del fuoco. Il cerchio magico di protezione.

Il fuoco rischiarava l’ebano dei loro volti, illuminava le piume delle loro vesti, dei loro copricapi, e delle lunghe mantelle di pelliccia indossate per la sacralità di quella danza sfrenata. Ma non era abbastanza forte da oscurare le stelle che si stagliavano vivide nel nero lenzuolo che li sovrastava. 

Gli occhi languidi rivolti agli astri si illuminavano di quella immensità e il mondo avrebbe potuto capovolgersi e non avere più cognizione del sopra e del sotto.


La notte il rosso illuminato dalle fiamme prendeva vita. Il fuoco di notte faceva risaltare l’oro della pelliccia, simboleggiava che la caccia l’indomani sarebbe stata propizia.

Di giorno il fuoco consumava le cose, senza essere visto, come un cancro; allo stesso modo di giorno l’incedere dell’animale veniva inghiottito dal folto della vegetazione. Procedeva così l’animale, in silenzio, facendo tremare i fili biondi come mossi da un alito di vento. Solo quando non c’era più scampo, si sentiva il ruggito. 

Erano stati avvistati alcuni cuccioli di leone aggirarsi di giorno per la città vicina. Gli abitanti li credevano innocui, per lo più i bianchi. I coloni trovavano la cosa pittoresca. Il piccolo Jambo no. Lui li conosceva bene i felini, sapeva che in fondo erano malvagi. Quella loro apparente dolcezza esteriore, che li faceva somigliare a morbidi e simpatici peluche, nascondeva nel profondo una forza incontrollabile.

Nella vecchia stazione in pietra i passi felpati del cucciolo non tardarono a farsi sentire. Era cresciuto oramai, anche se non aveva ancora messo la criniera. Lo si poteva scambiare per una leonessa pur non avendo le sembianze aggressive delle femmine.

La sua remissività, avrebbe potuto trarre in inganno se paragonato ai maschi adulti, pigri che preferiscono distendersi sulla collina, la schiena appoggiata alla corteccia di un albero in attesa che la caccia abbia luogo, una caccia che avrebbero delegato alle femmine.

Il piccolo Jambo notò l’ombra che si frappose fra sé stesso e il riquadro della porta illuminato dal sole, un rettangolo lungo che percorreva tutto il pavimento andandosi a piegare sulla parete di fronte. 

Per un attimo quel rettangolo di luce fu oscurato, interrotto, spezzato da una massa oscura dal profilo dorato fluorescente.

L’istinto di conservazione fece il resto. A pochi passi da dove si trovava quel giorno il piccolo Jambo svettava un palo, sostegno di vecchi tabulati orari oramai ingialliti, segno che i treni non passavano quasi più,  ne erano rimasti pochi di treni a quel tempo che si fermavano nel villaggio. I viaggiatori che dovevano recarsi in città, attendevano, senza fretta, senza orario. Sarebbero saliti prima o poi,  con o senza bagagli, la cosa non era importante. Sarebbero saliti, quando il treno sarebbe arrivato, prima o poi.

I piedi e le mani del bimbo afferrarono il palo. un agile balzo e prese a salire come era suo solito fare sulle palme per fare incetta di frutti, su sempre più su. Lo aveva imparato dalle sue amiche scimmie, semplicemente osservando.

Il cucciolo di leone proseguì il suo cammino senza alzare lo sguardo, passo dopo passo, la testa china ignorandolo completamente.

Il picco Jambo dall’alto del suo nascondiglio, avvinghiato al palo guardò l’animale e con la mano destra colpi l’incavo del gomito del braccio sinistro, rivolgendosi a lui un pensiero si venne formando: ti ho fregato!

L’indomani, si seppe che alcuni mangiatori di uomini avevano seminato morte e distruzione. Questa volta alcune donne donne erano state colpite al fiume. Quando furono trovate, l’ebano della loro pelle non rifletteva più la luce del sole, si era essiccato come le crettature del terreno inaridito da una pioggia egoista. I panni bianchi stesi ad asciugare non erano che un grumo di sangue, un tappeto intessuto da una fantasia di impronte che si confondevano le le une nelle altre.

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Umumba si era salvata, percepiva nell’aria qualcosa di insolito alle prime luci dell’alba di quella  mattina. Insolita era anche lei che si distanziava dalle altre, non aveva figli, pertanto non occupava una posizione prominente nella comunità. Era solita starsene in disparte ed osservare. E questo suo osservare l’avrebbe risparmiata.

Inaspettatamente, senza alcun preavviso, Umumba alzò la testa e drizzò le orecchie, pronta a cogliere ogni minimo rumore nel silenzio che si era andato formando. D’impulso lasciò i panni cadere. Le altre donne alzarono lo sguardo, perplesse. Lo rivolsero prima a lei poi si guardarono fra sé, un gesto di intesa volto a sancire il senso di appartenenza al gruppo, e sogghignando, la guardarono trattenendo a stento le risa.

Umumba era strana, non si comportava come le altre, anche se tentava di imitarle. Una maternità mancata che cercava di mascherare con attenzioni che dedicava al piccolo Jambo. Non era sua madre, eppure la loro intesa suscitava nelle altre ilarità e invidia. I due si intendevano alla perfezione. E questo la isolava ancora di più dalle altre.

Uno stormo di uccelli si alzò in volo, una nube di ali si mosse dalle fronde basse degli alberi ad oscurare il sole, seguita dal grido di una scimmia. Tre grida che si ripeterono, rimandate dall’eco della montagna che si stagliava all’orizzonte.

Umumba lasciò cadere i panni nel fango. Si alzò di scatto, in piedi sulla riva le gambe nascoste dalla vegetazione, si schermò la fronte con la mano e si guardò attorno, come una sentinella. Le altre ripresero a lavare accompagnandosi con le loro cantilene, ignare e incuranti del silenzio che si era andato formando. 

Non si sentivano né i passi, né il ruggito. 

Con uno scatto improvviso, Umumba  si portò nell’acqua, continuò ad avanzare fintanto che l’acqua non le cinse la vita. Le altre, in ginocchio alzarono la schiena e presero a

ridere senza più trattenersi.

La bionda chiome della savana africana presero a muoversi, lentamente e poi sempre più forte come mossa dal vento che in quel momento non c’era.

Umumba, con l’acqua alla gola si era spinta nel mezzo del fiume agitando le braccia per tenersi a galla, muta, impietrita. Provò ad attirare la loro attenzione con gesti un po’ impacciati e gorgoglii soffocati dall’acqua che le entrava nella bocca e nelle narici, mentre toccava il fondo e riemergeva con colpi di tosse e poi con grida. Ma loro niente,

continuavano imperterrite a scambiarsi sguardi di intesa l’una con l’altra, sogghignando, trattenendosi e poi scoppiando in sonore risate abbassando la testa per non incrociare il suo sguardo. Continuarono così, le spalle rivolte alla fitta vegetazione che inghiottiva i passi felpati e finì così per inghiottire anche le loro grida.

Umumba, lanciò un grido di dolore lancinante, agitando ancora di più le braccia, andando a fondo e riemergendo più volte, tossendo e singhiozzando in preda al terrore. Temeva la medesima sorte. Quale demone aveva potuto far scomparire così quelle donne? Provava risentimento per loro, ma non a tal punto da augurare loro la morte. Non aveva sentito le loro grida, erano scomparse così in silenzio rotto soltanto dal fruscio dell’erba e dagli schiocchi di rami secchi spezzati dall’incedere di un essere in fuga.

E così la fitta vegetazione che inghiottiva ogni cosa alla vista prese a muoversi forte e poi lentamente. Dall’acqua poteva vedere quel movimento allontanarsi. Poi quando tutto fu fermo e gli uccelli tornarono sugli alberi e le scimmie a gridare, uscì dall’acqua.

Prese a correre verso il villaggio, seguendo le orme impresse sul terreno, chiedendo del piccolo Jambo e del vecchio sciamano.

Le notti di lutto si susseguirono le une alle altre accompagnate dal ritmo incessante dei tamburi che richiamava al villaggio da ogni dove guerrieri armati di lance.

Umumba, felice di rivedere il piccolo Jambo, ebbe un sussulto alla vista degli altri bambini rimasti orfani. Che strano destino, da esclusa si era ritrovata madre di molti. Una dea vestale dedita alla cura di una piccola comunità e lei ne andava fiera.

Nei due giorni seguenti Il vecchio sciamano chiamò a raccolta il villaggio per decidere il da farsi. I vecchi intonarono un canto che andò avanti fino al mattino del sacrificio. Il sole appena sorto scaldava i colori fluorescenti del verde e l’oro della savana.

Portavano ancora addosso l’odore delle loro madri, i piccoli rimasti orfani, al ché il consiglio dei vecchi decise di radunarli per condurli nel folto della vegetazione dove furono fatti adagiare. Con le lacrime agli occhi e un urlo soffocato Umumba non riusciva a lasciare la mano del piccolo Jambo, mentre i guerrieri paludati con manti rossi e frecce lo trascinavano via.

Umbumba non si poté trattenere, ruppe il cordone dei guerrieri piumati e raggiunse il cerchio dove, inghiottiti dalla vegetazione, i bimbi sedevano  a semicerchio con le spalle rivolte dalla parte opposta al villaggio, vittime sacrificali di quali demoni sanguinari non era dato sapere.

Umumba provò una irrefrenabile tenerezza per questi bimbi indifesi, remissivi, mentre i  guerrieri, se ne stavano appostati; anch'essi immersi tra i fili dorati, con le lance sguainate, in attesa dell’approssimarsi silenzioso del carnefice.

Umumba fu trascinata via, le urla non più trattenute laceravano l’etere. L’ultimo sguardo, sulla testa reclinata in avanti dei bimbi, le guance grassottelle, i piccoli ricci tenuti cortissimi, mostravano il collo piccolo poggiato su piccole spalle, piccole schiene d’ebano ricurve in avanti in attesa, che si abbassavano e si rialzavano lentamente all’unisono con il respiro.

L’erba prese a muoversi, lentamente, poi, sempre più forte. Mentre i passi felpati si avvicinavano silenziosi, i bambini tremavano, le spalle rivolte all’aggressore che non si fece attendere. Si si avvicinava senza un ruggito. Inaspettatamente balzò sulle sue preda, esche viventi di un assassino vigliacco che ti prende alle spalle.

Si scagliò sui bimbi che, tremanti, presero a fuggire in ogni dove, alzandosi e ricadendo ogni volta, inghiottiti di nuovo dalla vegetazione. 

Riuscirono a fuggire tutti eccetto uno.


Il piccolo Jambo fu afferrato dalle zampe di quel demone rosso. Le zanne sprofondarono nella carne. Un morso profondo tra il collo e le spalle. Il rosso vermiglio del piccolo Jambo si confondeva con la pelliccia ambrata striata a fasce più scure. Non si era mai visto in quei luoghi un demone di tale sorta. Non era del posto. Sicuramente portato lì dai cacciatori bianchi e dai coloni che provenivano da quel Paese che loro chiamavano India.

Il rosso delle vesti apparve all’improvviso dalla sterpaglia. Fuori dai loro nascondigli, lanciarono i guerrieri le loro lance.

Farouk, il guardiano del fuoco, corse con una torcia verso l’animale. Una tigre giaceva a terra uccisa,trafitta.

Umumba si precipitò in soccorso del piccolo Jambo. Era riverso a terra, aveva ancora la spalla tra le fauci di una seconda belva che ora giaceva anch’essa a terra morta.

Erano due... due. Due tigri che non avevano dato modo agli uomini di intervenire per tempo. Ma il cuore del piccolo Jamba batteva forte, respirava ancora.