Cookies' Blog

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sabato 29 dicembre 2012

La mandorla più bella del mondo


Nell’antica civiltà araba, lontana da dogmi religiosi, godere e procurare godimento era un dovere del credente. Questo riscopre Badra, dopo essere fuggita da casa, da un paesino dell’entroterra marocchino, e dalle umiliazioni costretta a subire per la mancata gravidanza. Una fuga meditata per cinque lunghi anni, dopo essere stata data in sposa ad un uomo più vecchio di lei, un ricco e rispettabile notaio di quaranta anni, quando lei invece ne aveva solamente diciassette e gli unici valori che le venivano riconosciuti erano la sua verginità e la sua capacità riproduttiva.
A Tangeri Badra scopre, la libertà, la libertà di essere se stessa, di amare e di provare piacere. Il riscatto però viene dalla parola scritta. Badra inizia a scrivere la propria storia, crede nella letteratura come arma fatale, capace di riconnettere i fili spezzati tra il corpo e l’anima, tra un individuo e l’altro, tra le donne e il sesso, tra l’amore e il piacere erotico loro negato da una tradizione integralista. La scrittura le dà la libertà di riconciliarsi con se stessa, ripercorrere le fasi della sua vita. di rompere i lacci che la tenevano segregata in uno stato di inconsapevolezza di sé e di alienazione dal suo corpo e dalle sue emozioni.
Dal desiderio che nella vagina le crescessero dei rovi così che il marito “si sarebbe scorticato l’attrezzo, e avrebbe smesso di entrarci”, dal suo proposito, la prima notte di nozze di “restare immobile. Non gemere. Non vomitare. Non provare niente. Morire”, a Tangeri, Badra inizia la sua vera educazione sentimentale ed erotica. Qui impara ad avere cura della sua mandorla, così che il proprio uomo “deve desiderare di piantarci dentro i denti, prima di infilarci qualcos’altro”, come le dice la zia Selma nel bagno turco.
Stufa di essere sottomessa al suo sposo al quale non era riuscita di dare un figlio, e intollerante del libertinismo più sfrenato di Driss, l'amante infedele che ama alla follia, la protagonista si darà alla vita più dissoluta come atto di ribellione.
Badra, denunciando l'egoismo degli uomini, si fa così portavoce di tante donne arabe e dell'autrice stessa, che protetta dall'anonimato, ha deciso di violare il silenzio sulla vita matrimoniale e sessuale delle donne arabe attraverso un racconto erotico che è soprattutto un coraggioso atto politico.

Certaldo, 23 dicembre 2012
© Marzia Pasticcini

mercoledì 5 dicembre 2012

La risposta araba alle cinquanta sfumature

La storia è il viaggio iniziatico di Leila, che con l’aiuto della zia Zobida, una vedova di mezza età, guaritrice e dalla doppia vita, fugge dal villaggio nativo, dopo aver rischiato di essere ripudiata dal marito e dalla famiglia di lui perché, la prima notte di nozze,  l’imene non ha sanguinato. L’inesperienza del marito e la tensione e la paura della ragazza hanno contribuito affinché la "gatta" o  la “mandorla” della ragazza non si aprisse.
La zia ha una storia sessuale segreta e decide di “istruire” la ragazza lontano dall’ambiente severo e bigotto del villaggio,  rivelando ai suoi familiari che la ragazza non  può essere penetrata a causa di un incantesimo fatto fare dalla madre della ragazza, ora defunta. Una fattucchiera ha “sigillato” l’imene di Leila, che ora può essere riaperto solo da quella stessa maga. Durante il tragitto attraverso il deserto africano e di villaggio in villaggio. Leila verrà iniziata ai piaceri del sesso.
Durante il viaggio Leila incontrerà altre donne e l'ascolto dei loro racconti, delle loro storie di dolore, romperà la solitudine e il divario tra le loro esperienze individuali. Recidendo i legami con il passato e le tradizioni imposte dalla religione imperante, la giovane Leila riuscirà  a dare un senso alla sua vita e a formarsi come persona e come donna.
L'autrice, di cui si ignora, volutamente, l'identità, tenta magistralmente di riannodare i fili con le tradizioni dell'antica civiltà araba felice e sensuale. La traversata dei sensi è un racconto erotico, dolce e coinvolgente, un atto di coraggio, di ribellione e libertà, per ridare alle donne una voce ancora oggi negata.

Certaldo, 5 dicembre 2012
Marzia Pasticcini

lunedì 29 ottobre 2012

Sono le storie a dare sapore alle cose


"Il desiderio è il solo motivo per cui andiamo avanti in mezzo a tanto orrore. Tutti abbiamo bisogno di una passione, o di un'ossessione. Cerca la tua. Desiderala fortemente, e fa' della tua vita la ragione stessa per cui vivi."
"Come faccio a sapere se la mia ossessione o la mia passione è quella giusta?..."
"Perché se la racconti a qualcuno e questi la trova interessante, allora saprai che non hai vissuto invano. Ricorda, figliolo: sono le storie a dare sapore alle cose."
Fantastico libro. dico solo questo: 
Semplicemente F A N T A S T I C O  e 
F A N T A S T I C O chi me lo ha consigliato e poi prestato.
Grazie infinite.

Marzia Pasticcini
Certaldo, 29 ottobre 2012

sabato 29 settembre 2012

Francesco d'Assisi e la Fisica Quantistica

Francesco Pandolfi Balbi, o come piace chiamarlo a me: Francesco d'Assisi, è sceso dal Monte Subasio, dopo un ritiro durato, se non erro, alcuni anni. Personaggio eclettico con la passione per l'informatica, la Fantascienza, il Mistero, la Fisica quantistica, in modo particolare le teorie olografica di David Bohm e del Superspin di Malanga-Pederzoli, la Filosofia, la Metafisica; è amante della spontaneità e dei semplici piaceri della vita di cui la scrittura occupa una parte preminente, in quanto generatrice di  bellezza e armonia.
Scrive di tutto, s''interessa di tutto, dalla tutela  dell'ambiente e del benessere fisico e interiore dell'Uomo alla  natura della vita e dell'esistenza di cui è un grande osservatore. Egli stesso si definisce un visivo-cinestesico ed enneatipo quattro conservativo, ma con queste auto-definizioni, si aprirebbe un capitolo di psicologia del profondo di difficile gestione. Comunque i  suoi interessi sono molteplici e lo portano talvolta  oltre i confini della realtà: vi invito a visitare  il suo sito: http://www.poterepersonale.it.
Di carattere un po' schivo e di  animo anarchico (E' un Ariete), una volta vinta la sua diffidenza nei confronti di Facebook, e ripresi i contatti con l'umanità, ha finalmente dato sfogo alla sua grafomania, grazie anche alla sua esperienza di editore e webmaster che lo ha portato alla quinta riedizione del romanzo "Nulla mai finisce" uscito per la prima volta con il titolo "Chiaraluna". Non ho fatto a tempo a rileggere la precedente edizione, chissà cosa avrà cambiato del romanzo e della trama.
Sinossi: Una serie di eventi apparentemente casuali trasforma la società globale – generatrice di sofferenza e fondata sui giochi di potere – in una dimensione fortemente naturale e a misura d'uomo . Nasce il mondo per 

il quale – pur non avendolo mai conosciuto – molti provano da sempre profondissima nostalgia.

L’apparente   tranquillità  dell’atmosfera   che  regna   nelle   prime  pagine preannuncia, però, un forte trauma planetario accompagnato  da  morte e sofferenza.
Nulla di nuovo all’orizzonte, si dirà. Eppure questo libro continua a piacere non solo a molti lettori di romanzi d’avventura, ma anche e soprattutto a chi ama riflettere sulla natura della vita, dell'Uomo, dell'universo.
L'apparenza, quindi, è quella di un romanzo avvincente, mentre la sostanza inneggia alla vita e contribuisce a una visione più piena dell'esistenza umana.
Cosa ci si può aspettare da un autore di fantascienza se non il genio che precorre i tempi: l'aeromobile di sua invenzione è stata descritta prima da lui poi l'ho vista realizzata e pubblicizzata sul sito della Fondazione Keshe; quella vera di Keshe, pare voli, plani e funzioni ad energia antigravitazionale al plasma (http://www.facebook.com/pages/Keshe-Foundation/126388777468892). Francesco l'aveva descritta nel suo romanzo che poi, lui non scrive mica romanzi, ma saggi travestiti da romanzi - vedere qui per credere: http://www.nullamaifinisce.it/. In fondo, se non erro,  il titolo stesso ricalca la prima legge della termodinamica: "Niente si crea e niente si distrugge!". Ma cosa avrà cambiato in questa ultima edizione?

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 29 settembre 2012

mercoledì 22 agosto 2012

L'ombra del vento

“Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie ad esso”.
Nella Barcellona misteriosa del 1945. Daniel Sempere, il figlio undicenne di un libraio, adotta un libro: "L’ombra del vento", un libro che rapisce l'attenzione del piccolo Daniel e lo difende con tutte le sue forze. Questo luogo di cui Isac Montfort è il custode, è il labirintico Cimitero dei libri dimenticati.
Come potevano queste poche righe non rievocare un mio sogno di qualche tempo fa:
“In una casa strana e misteriosa che non so se sia appartenuta a mia nonna, seguo il padrone di casa che si avvia, facendomi strada, in direzione del salottino dove tengono i libri. Il marito bussa andando nel salottino dei libri, perché lui ha rispetto per le anime dei poeti e degli scrittori defunti. Ma non c'è nessuno oltre la porta. Io lo so”.

Le anime degli scrittori sono vive ed è possibile incontrarle e dialogare con loro nell'eterno presente della scrittura e della lettura; l'anima dello scrittore vive e rivive, ogni volta, nel momento in cui un lettore ne segue le parole, i pensieri e le emozioni.
Thriller ed horror si mischiano in questa atmosfera magica e un po' gotica di una Barcellona ammaliante.
Daniel legge il libro tutto d'un fiato appassionandosi a tal punto da rimanerne ossessionato.

Infatti nella disperata ricerca di altri libri del medesimo autore, Julian Carax, scrittore maledetto, che pare sia scomparso e non rintracciabile, Daniel scopre che la copia di cui è in possesso è l'unica esistente, perché qualcuno sta cercando e bruciando le copie di ogni opera di Carax.
La sua esistenza si intreccia con quella dell'autore in una storia enigmatica ed appassionante senza eguali, tale da cambiare la vita sia del protagonista che dei lettori.

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 22 agosto 2012

Quello strano sentore che viene dal passato


Ho appena finito di leggere un libro da cui sono stata risucchiata non appena vista la copertina e sbirciato la trama riassunta sul retro. Sin dalla prima pagina, si percepisce una strana aria e l'olfatto è il motivo ricorrente che tiene tutta la storia insieme.
E' come se fossimo penetrati in un Bildungsroman (Romanzo di formazione) dalle tinte fosche, perché incontriamo un adolescente che vive in un orfanatrofio, per poi precipitare in uno strano incubo.
La storia si svolge a Barcellona tra la fine degli anni '70 e inizio anni '80, ma subito dopo veniamo sprofondati in un altro tempo e in un'altra epoca dove il cuore della vicenda che coinvolge emotivamente il protagonista ha avuto inizio e questa atmosfera di "altro tempo" continua ad esercitare la sua influenza in maniera pregnante perché non c'à niente nella narrazione che richiami qualcosa degli anni '70/'80.
Per tutta la durata del romanzo, si respira un'aria di noir frammista a tonalità cupe che pian piano scivolano nell'horror di quei vecchi film americani in bianco e nero. Il titolo è Marina, l'autore è Carlos Ruiz Zafon.



© Marzia Pasticcini
Certaldo, 22 agosto 2012

martedì 21 agosto 2012

Morte dei Marmi


Ho appena finito di leggere un libro che mi ha prestato un mio carissimo amico. L'ho praticamente letto in un pomeriggio e me ne rammarico. Troppo poco tempo per un racconto così esilarante. Però è un testo che non puoi leggere in solitudine, va condiviso, letto ad alta voce, in compagnia, perché è pura oralità. Mi ha dato l'impressione di una conversazione con qualcuno che non vedevi da tempo incontrato al tavolino di un bar.
Seduto al tavolino c'è Fabio Genovesi i cui aneddoti non ti stancheresti mai di ascoltare:
“Noi quando sono arrivati i russi non ce ne siamo mica accorti. Nessuno ci aveva detto dei nuovi ricchi post Unione Sovietica, dei magnati di gas e petrolio. Per noi i russi erano un popolo fiero e modesto, e insieme meschino e invidioso, tutto preso a portare avanti una causa comune che era quella di regalare il paradiso socialista al mondo intero oppure di affogare il pianeta sotto le bombe nucleari. E intanto, nel tempo libero, giocavano a scacchi e leggevano romanzi difficili e si sfondavano di vodka per digerire le cene a base di bambini. Ecco perché i primi russi al Forte sono arrivati senza che ce ne accorgessimo. Perché nessuno li considerava russi”.
I vecchi del paese, quando sono arrivati i russi, non riuscivano a capacitarsi cosa avessero mai mangiato, quattro persone, per avere speso in un ristorantino del posto undicimila e trecento euro. Comunque i vecchi del posto, dice Fabio, non ci dormivano la notte, anche perché loro stessi erano dei gran mangiatori e bevitori, ma una cifra così non l'avevano mica mai spesa.
Anche io dei russi non me ne sono accorta, perché per me gli abitanti del Forte erano Adriana, la mamma della mia amica del cuore Mariacristina, Adriana che parlava con quell'accento strano... con le D al posto delle T, e il bel bagnino biondo, alto e muscoloso nonché campione di Surf che poi la mia amica si è spostata. Ricordo che abitavano in un monolocale sovrastante il loro stabilimento balneare. Ora hanno tre figli e un palazzo a tre piani, un piano per ogni figlio il più piccole dei quali, se ben ricordo, condivide con i genitori l'appartamento al piano terra,. Forse i russi, ora che ci penso, sono passati anche da loro.
Per quanto mi riguarda ero rimasta al film “Sapore di Sale”. Io non credevo che i “Signori", milanesi e i turisti del Forte, come si vedono nei film di Vanzina, fossero veri. Mi ci voleva Genovesi per confermare questo mio sospetto.
Quindici anni fa ero incinta di mia figlia, ed ero al Forte alla cena del Vernissage della mostra di Aldo Mondino. Al mio tavolo si siedono dei milanesi e altra gente vip, spiccicati sputati come nei film di Vanzina e come descrive Genovesi.
Mi ricordo che un tipo accanto a me, mentre era ancora nella galleria, telefona a una tipa invitandola ad un aperitivo e forse anche alla cena.
Dopo neanche due ore, questa si presenta con una mercedes. Una tipa esageratamente chic,  tacco 15, bocca e unghie rosa schoking, bionda e col mercedes parcheggiato di fronte al ristorante comincia a battere le unghie sul tavolo e fa "Vacanze-...." dove andate in vacanza?".
Insomma era partita da Milano per un semplice aperitivo, e poi al ristorante, trovava qualsiasi pretesto per far portare indietro al cameriere i piatti che aveva ordinato o perché c'era il tartufo che a lei non piaceva, o perché era allergica al formaggio.
Mi ricordo che disse: “l'uomo più interessante della serata oltre Mondino è Andrea. Ma ha la moglie incintissima”.
Per me Forte dei Marmi sono sempre state le vetrine e tutta questa fauna sfarzosa.
Genovesi in proposito dice: “... su Forte dei Marmi si è abbattuto uno tsunami di denaro. ...e  se poi per disgrazia viene fuori che a Forte dei Marmi ci hai pure fatto il liceo, allora davvero ti guardano come se gli dicessi che ti sei laureato a Gardaland”.
Se poi gli chiedi dove vivi? Lui risponde: “Io vivo a Morte dei Marmi. Anzi no, a Forte dei Marmi. Perché un paese non è morto se ancora ci vive qualcuno”. E' vero, perché Genovesi la sua casetta non l'ha data via, ma se l'è tenuta per se.

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 21 agosto 2012

venerdì 20 luglio 2012

Autobus n. 3 solo andata

«Sono quarant’anni che le cose vanno avanti così… quarant’anni… e poi dicono che la colpa è della Lehman Brothers!»
Cerco a chi appartiene la voce di cui percepisco solo queste parole. Se mi sporgo un attimo, riesco solo a vedere il viso del suo interlocutore, un uomo con la barba che ascolta in silenzio, senza opporre resistenza, né ribatte contro.
Seguo il monologo di cui ho perso l’inizio e non riesco a ricostruirne il senso con i pochi elementi che ho.
Non riesco a vedere la persona che parla.
Una signora ne copre la vista, una signora anziana, molto raffinata, vestita di bianco, capelli lunghi color della cenere e occhi penetranti, verdi.
Mi guarda e sorride. Tiene le braccia incrociate sul petto; in mano ha un cappello, un cappello bianco di paglia. Lo tiene sul petto affinché non si schiacci nella calca.
La signora mi sorride:
«Che begli occhi celesti che ha, non se ne vedono così!».
La ringrazio.
La signora continua a sorridere, serena.
Due fermate prima della mia, l’uomo con la barba scende e il monologhista si volta.
E’ anziano, un viso sorridente di persona serena ma che sta attenta a ciò che le succede intorno.
«Che bel cappello...» si rivolge così alla signora.
«Che bello il cappello di paglia di Firenze… oggi non lo porta più nessuno il cappello… anche i giovani… le ragazze, si lo so… loro sono per la creatività ma…. prima... tutte le signore portavano il cappello… stanno bene le donne col cappello».
L’anziano, dall’espressione solare, interrompe un attimo il suo monologo per rivolgersi alla signora
«Lei di dove è signora…dove abita?»
«Sono del Chianti!» risponde lei, con una voce senza influssi dialettali. Si direbbe inglese, americana o tedesca all’apparenza. Ha quell’aspetto sereno di una straniera in vacanza, però non riesco ad individuare alcun influsso dialettale. Parla un italiano perfetto. Non è possibile collocarla in alcuna regione particolare. È come se non fosse né Italiana né straniera. Allora cos’è?
Sembra che la medesima curiosità abbia preso l’anziano oltre me.
Alla risposta “Chianti” l’anziano riprende il suo monologo, avviandosi verso la conclusione:
«...Eh sì…prendono in giro la Regina d’Inghilterra, per il cappello ma…. vede…i giovani d’oggi, le ragazze… io sono in pensione dal 96, e da allora collaboro con una casa editrice… ci sono molte ragazze, molte stagiste… ma nessuna mette più in evidenza la femminilità, vogliono essere e si vestono tutte da maschi.»
L’autobus si ferma, l’anziano scende, un'ultima constatazione:
«Eh sì non c’è più la femminilità!».

® Marzia Pasticcini
Siena, 20 luglio 2012



martedì 3 aprile 2012

Autobus n. 3

Sto correndo dietro l’autobus n. 3.
I passeggeri assiepati alla porta, in procinto di salire, sono una garanzia al che io possa prenderlo.
Sono saliti tutti. La porta di fondo è ostruita da due zaini che fuoriescono. Mi sposto verso la porta centrale, quella di uscita/discesa.
Una signora anziana ha depositato a bordo la borsa della spesa e sta tentando di salire. Tiene la mano ferma sul palo e con i piedi tenta invano di scavalcare lo scalino, prima con il destro, poi con il sinistro. Lo sguardo rivolto a terra, quasi che con gli occhi potesse darsi una spinta, come se questi sostituissero i muscoli delle gambe che non la sostengono più.
La donna è spostata sulla sinistra. L’aggiro, salgo sul lato destro, la scavalco. Poi, una volta su, le tendo la mano:
«Venga Signora, l’aiuto io!».
La donna salta su con leggerezza, come se volasse. Si profonde in una cascata di ringraziamenti a non finire.
«Ci vuole coraggio a stare al mondo!” prorompe. Al che le rispondo “basta trovarlo!».
Lei sorride «Eh sì, basta trovarlo!» mi fa eco.
«C’è troppa gente al mondo!» si lamenta..
«Qui a Siena bisogna fare piazza pulita!».
L’esorto a reggersi con fermezza. Poco dopo si sposta: «Devo scendere alla prossima!» annuncia.
Sono davanti alla porta di uscita, quella centrale. Ho il dito già sul campanello. È posto proprio lì sul palo su cui mi sto tenendo, quindi lo premo. Lei ringrazia.
L’autobus si ferma. Le chiedo: «Devo aiutarla a scendere?».
Ringrazia. È in grado di farlo da sola e rifiuta cortesemente il mio invito.
Prima di scendere, ancor prima che l’autobus si arresti alla sua fermata, i suoi occhi intercettano il libro che tengo in mano.
Con fare gentile, chiede: «Cosa sta leggendo di bello?».
«Sergio Bambarén, Fratello mare! È un autore sudamericano che fa un viaggio all’insegna di San Francesco».
«Bello!» esclama lei.
«Ultimamente, sto incontrando una serie di francescani!» dico io.
«Ah, sì?».
«Mi piace leggere e scrivere... è dal primo novembre che succede” preciso. «Avevo scritto un racconto che era piaciuto a una persona. Io avevo letto le cose che questa persona aveva scritto e mi sono piaciute. Ci siamo scambiati i libri. Da allora li incontro regolarmente, i francescani, due dei quali molto importanti per me!»
La signora atterra sul marciapiede e prima che le porte si richiudono, domanda:
«Come si fa a sapere chi è Lei?»
«Come si fa a sapere chi è Lei?» ripete.
La risposta, che mi sorge spontanea, sorprende anche me, oltre che lei: «Mi rincontrerà... mi rincontrerà!».

© Marzia Pasticcini
Siena, Martedì 3 aprile 2012



venerdì 16 marzo 2012

Africa


Le vibrazioni si potevano percepire a pelle. Ad ogni sussulto la polvere si alzava da terra in una nube dorata, un movimento a zig zag e ricadeva giù come il grano lanciato in aria dai contadini per liberare i chicchi preziosi dalla loro camicia di forza.

Era un ritmo che si susseguiva uguale a se stesso, che si protraeva all’infinito, Il rullio dei tamburi sembrava non avere fine. Era andato avanti tutta la notte e la notte prima e quella prima ancora, senza soluzione di continuità. 

Di giorno faceva da sottofondo ai rumori della vita, alle grida dei bimbi, al ciarlio delle donne del villaggio, ai vociare dei mercanti di spezie e di granaglie che si muovevano con i loro bagagli caricati in spalla, alle danze irrefrenabili dei cacciatori che rendevano grazie alla madre terra per il cibo loro donato.



Come il pulsare del sangue nelle vene andava avanti ininterrotto, in modo fluido e automatico, senza che la mente ne avesse coscienza, così, allo stesso  modo, il tam tam dei tamburi di giorno faceva parte della vita. Era come respirare, un atto vitale ma involontario, ovattato di cui non si è coscienti fino in fondo. Come lo stomaco digerisce e l’organismo sceglie e separa ciò che nutre da ciò che deve essere scartato, affidando ad un’entità autonoma la direzione dell’orchestra senza che l’individuo ne sia consapevole, così andava avanti la vita di giorno nel villaggio.


Ma la notte era tutt’altra cosa. Il fuoco doveva essere tenuto acceso, alimentato, vivo. Il guardiano del fuoco Farouk lo alimentava con lo sterco secco delle bestie feroci che i bimbi del villaggio raccoglievano di giorno nella savana.

Avanzava un piccolino, inghiottito dalla vegetazione alta che ondeggiava mossa da una brezza leggera che da poco si era levata. Portava con sé gli odori degli uomini, parlava alle bestie, diceva loro dove era il cibo.

Dovevano muoversi sotto vento, guardarlo in faccia il respiro del drago, sfidarlo per ingannare le bestie.

Il bimbo fu richiamato dagli anziani del gruppo. Doveva stare alle regole, non era consentito allontanarsi del cerchio del fuoco. Il cerchio magico di protezione.

Il fuoco rischiarava l’ebano dei loro volti, illuminava le piume delle loro vesti, dei loro copricapi, e delle lunghe mantelle di pelliccia indossate per la sacralità di quella danza sfrenata. Ma non era abbastanza forte da oscurare le stelle che si stagliavano vivide nel nero lenzuolo che li sovrastava. 

Gli occhi languidi rivolti agli astri si illuminavano di quella immensità e il mondo avrebbe potuto capovolgersi e non avere più cognizione del sopra e del sotto.


La notte il rosso illuminato dalle fiamme prendeva vita. Il fuoco di notte faceva risaltare l’oro della pelliccia, simboleggiava che la caccia l’indomani sarebbe stata propizia.

Di giorno il fuoco consumava le cose, senza essere visto, come un cancro; allo stesso modo di giorno l’incedere dell’animale veniva inghiottito dal folto della vegetazione. Procedeva così l’animale, in silenzio, facendo tremare i fili biondi come mossi da un alito di vento. Solo quando non c’era più scampo, si sentiva il ruggito. 

Erano stati avvistati alcuni cuccioli di leone aggirarsi di giorno per la città vicina. Gli abitanti li credevano innocui, per lo più i bianchi. I coloni trovavano la cosa pittoresca. Il piccolo Jambo no. Lui li conosceva bene i felini, sapeva che in fondo erano malvagi. Quella loro apparente dolcezza esteriore, che li faceva somigliare a morbidi e simpatici peluche, nascondeva nel profondo una forza incontrollabile.

Nella vecchia stazione in pietra i passi felpati del cucciolo non tardarono a farsi sentire. Era cresciuto oramai, anche se non aveva ancora messo la criniera. Lo si poteva scambiare per una leonessa pur non avendo le sembianze aggressive delle femmine.

La sua remissività, avrebbe potuto trarre in inganno se paragonato ai maschi adulti, pigri che preferiscono distendersi sulla collina, la schiena appoggiata alla corteccia di un albero in attesa che la caccia abbia luogo, una caccia che avrebbero delegato alle femmine.

Il piccolo Jambo notò l’ombra che si frappose fra sé stesso e il riquadro della porta illuminato dal sole, un rettangolo lungo che percorreva tutto il pavimento andandosi a piegare sulla parete di fronte. 

Per un attimo quel rettangolo di luce fu oscurato, interrotto, spezzato da una massa oscura dal profilo dorato fluorescente.

L’istinto di conservazione fece il resto. A pochi passi da dove si trovava quel giorno il piccolo Jambo svettava un palo, sostegno di vecchi tabulati orari oramai ingialliti, segno che i treni non passavano quasi più,  ne erano rimasti pochi di treni a quel tempo che si fermavano nel villaggio. I viaggiatori che dovevano recarsi in città, attendevano, senza fretta, senza orario. Sarebbero saliti prima o poi,  con o senza bagagli, la cosa non era importante. Sarebbero saliti, quando il treno sarebbe arrivato, prima o poi.

I piedi e le mani del bimbo afferrarono il palo. un agile balzo e prese a salire come era suo solito fare sulle palme per fare incetta di frutti, su sempre più su. Lo aveva imparato dalle sue amiche scimmie, semplicemente osservando.

Il cucciolo di leone proseguì il suo cammino senza alzare lo sguardo, passo dopo passo, la testa china ignorandolo completamente.

Il picco Jambo dall’alto del suo nascondiglio, avvinghiato al palo guardò l’animale e con la mano destra colpi l’incavo del gomito del braccio sinistro, rivolgendosi a lui un pensiero si venne formando: ti ho fregato!

L’indomani, si seppe che alcuni mangiatori di uomini avevano seminato morte e distruzione. Questa volta alcune donne donne erano state colpite al fiume. Quando furono trovate, l’ebano della loro pelle non rifletteva più la luce del sole, si era essiccato come le crettature del terreno inaridito da una pioggia egoista. I panni bianchi stesi ad asciugare non erano che un grumo di sangue, un tappeto intessuto da una fantasia di impronte che si confondevano le le une nelle altre.

.

Umumba si era salvata, percepiva nell’aria qualcosa di insolito alle prime luci dell’alba di quella  mattina. Insolita era anche lei che si distanziava dalle altre, non aveva figli, pertanto non occupava una posizione prominente nella comunità. Era solita starsene in disparte ed osservare. E questo suo osservare l’avrebbe risparmiata.

Inaspettatamente, senza alcun preavviso, Umumba alzò la testa e drizzò le orecchie, pronta a cogliere ogni minimo rumore nel silenzio che si era andato formando. D’impulso lasciò i panni cadere. Le altre donne alzarono lo sguardo, perplesse. Lo rivolsero prima a lei poi si guardarono fra sé, un gesto di intesa volto a sancire il senso di appartenenza al gruppo, e sogghignando, la guardarono trattenendo a stento le risa.

Umumba era strana, non si comportava come le altre, anche se tentava di imitarle. Una maternità mancata che cercava di mascherare con attenzioni che dedicava al piccolo Jambo. Non era sua madre, eppure la loro intesa suscitava nelle altre ilarità e invidia. I due si intendevano alla perfezione. E questo la isolava ancora di più dalle altre.

Uno stormo di uccelli si alzò in volo, una nube di ali si mosse dalle fronde basse degli alberi ad oscurare il sole, seguita dal grido di una scimmia. Tre grida che si ripeterono, rimandate dall’eco della montagna che si stagliava all’orizzonte.

Umumba lasciò cadere i panni nel fango. Si alzò di scatto, in piedi sulla riva le gambe nascoste dalla vegetazione, si schermò la fronte con la mano e si guardò attorno, come una sentinella. Le altre ripresero a lavare accompagnandosi con le loro cantilene, ignare e incuranti del silenzio che si era andato formando. 

Non si sentivano né i passi, né il ruggito. 

Con uno scatto improvviso, Umumba  si portò nell’acqua, continuò ad avanzare fintanto che l’acqua non le cinse la vita. Le altre, in ginocchio alzarono la schiena e presero a

ridere senza più trattenersi.

La bionda chiome della savana africana presero a muoversi, lentamente e poi sempre più forte come mossa dal vento che in quel momento non c’era.

Umumba, con l’acqua alla gola si era spinta nel mezzo del fiume agitando le braccia per tenersi a galla, muta, impietrita. Provò ad attirare la loro attenzione con gesti un po’ impacciati e gorgoglii soffocati dall’acqua che le entrava nella bocca e nelle narici, mentre toccava il fondo e riemergeva con colpi di tosse e poi con grida. Ma loro niente,

continuavano imperterrite a scambiarsi sguardi di intesa l’una con l’altra, sogghignando, trattenendosi e poi scoppiando in sonore risate abbassando la testa per non incrociare il suo sguardo. Continuarono così, le spalle rivolte alla fitta vegetazione che inghiottiva i passi felpati e finì così per inghiottire anche le loro grida.

Umumba, lanciò un grido di dolore lancinante, agitando ancora di più le braccia, andando a fondo e riemergendo più volte, tossendo e singhiozzando in preda al terrore. Temeva la medesima sorte. Quale demone aveva potuto far scomparire così quelle donne? Provava risentimento per loro, ma non a tal punto da augurare loro la morte. Non aveva sentito le loro grida, erano scomparse così in silenzio rotto soltanto dal fruscio dell’erba e dagli schiocchi di rami secchi spezzati dall’incedere di un essere in fuga.

E così la fitta vegetazione che inghiottiva ogni cosa alla vista prese a muoversi forte e poi lentamente. Dall’acqua poteva vedere quel movimento allontanarsi. Poi quando tutto fu fermo e gli uccelli tornarono sugli alberi e le scimmie a gridare, uscì dall’acqua.

Prese a correre verso il villaggio, seguendo le orme impresse sul terreno, chiedendo del piccolo Jambo e del vecchio sciamano.

Le notti di lutto si susseguirono le une alle altre accompagnate dal ritmo incessante dei tamburi che richiamava al villaggio da ogni dove guerrieri armati di lance.

Umumba, felice di rivedere il piccolo Jambo, ebbe un sussulto alla vista degli altri bambini rimasti orfani. Che strano destino, da esclusa si era ritrovata madre di molti. Una dea vestale dedita alla cura di una piccola comunità e lei ne andava fiera.

Nei due giorni seguenti Il vecchio sciamano chiamò a raccolta il villaggio per decidere il da farsi. I vecchi intonarono un canto che andò avanti fino al mattino del sacrificio. Il sole appena sorto scaldava i colori fluorescenti del verde e l’oro della savana.

Portavano ancora addosso l’odore delle loro madri, i piccoli rimasti orfani, al ché il consiglio dei vecchi decise di radunarli per condurli nel folto della vegetazione dove furono fatti adagiare. Con le lacrime agli occhi e un urlo soffocato Umumba non riusciva a lasciare la mano del piccolo Jambo, mentre i guerrieri paludati con manti rossi e frecce lo trascinavano via.

Umbumba non si poté trattenere, ruppe il cordone dei guerrieri piumati e raggiunse il cerchio dove, inghiottiti dalla vegetazione, i bimbi sedevano  a semicerchio con le spalle rivolte dalla parte opposta al villaggio, vittime sacrificali di quali demoni sanguinari non era dato sapere.

Umumba provò una irrefrenabile tenerezza per questi bimbi indifesi, remissivi, mentre i  guerrieri, se ne stavano appostati; anch'essi immersi tra i fili dorati, con le lance sguainate, in attesa dell’approssimarsi silenzioso del carnefice.

Umumba fu trascinata via, le urla non più trattenute laceravano l’etere. L’ultimo sguardo, sulla testa reclinata in avanti dei bimbi, le guance grassottelle, i piccoli ricci tenuti cortissimi, mostravano il collo piccolo poggiato su piccole spalle, piccole schiene d’ebano ricurve in avanti in attesa, che si abbassavano e si rialzavano lentamente all’unisono con il respiro.

L’erba prese a muoversi, lentamente, poi, sempre più forte. Mentre i passi felpati si avvicinavano silenziosi, i bambini tremavano, le spalle rivolte all’aggressore che non si fece attendere. Si si avvicinava senza un ruggito. Inaspettatamente balzò sulle sue preda, esche viventi di un assassino vigliacco che ti prende alle spalle.

Si scagliò sui bimbi che, tremanti, presero a fuggire in ogni dove, alzandosi e ricadendo ogni volta, inghiottiti di nuovo dalla vegetazione. 

Riuscirono a fuggire tutti eccetto uno.


Il piccolo Jambo fu afferrato dalle zampe di quel demone rosso. Le zanne sprofondarono nella carne. Un morso profondo tra il collo e le spalle. Il rosso vermiglio del piccolo Jambo si confondeva con la pelliccia ambrata striata a fasce più scure. Non si era mai visto in quei luoghi un demone di tale sorta. Non era del posto. Sicuramente portato lì dai cacciatori bianchi e dai coloni che provenivano da quel Paese che loro chiamavano India.

Il rosso delle vesti apparve all’improvviso dalla sterpaglia. Fuori dai loro nascondigli, lanciarono i guerrieri le loro lance.

Farouk, il guardiano del fuoco, corse con una torcia verso l’animale. Una tigre giaceva a terra uccisa,trafitta.

Umumba si precipitò in soccorso del piccolo Jambo. Era riverso a terra, aveva ancora la spalla tra le fauci di una seconda belva che ora giaceva anch’essa a terra morta.

Erano due... due. Due tigri che non avevano dato modo agli uomini di intervenire per tempo. Ma il cuore del piccolo Jamba batteva forte, respirava ancora.


domenica 22 gennaio 2012

Una visione

Quanto ha ragione Richard Bach nel sottolineare l’importanza di “…portarsi sempre dietro… il taccuino dei pensieri fuggevoli”. Non è un’idea improvvisa, né un sogno ciò che voglio raccontare, ma una visione, avuta esattamente un anno fa, il 22 gennaio 2011. Era passata da un po’ la mezzanotte, tornavamo da un curioso concerto jazz: The Roar at the Door. Nel piccolo teatro di Marcialla, un borghetto immerso nella campagna toscana a pochi chilometri da Certaldo, si era esibito un quartetto veramente degno di nota:- Francesco Bearzatti, al Sax; - Raffaello Pareti, al contrabbasso; - Mauro Ottolini, al trombone; - Walter Paoli, alla batteria. Dai toni più di uno spettacolo clownesco-circense che di un evento musicale, vuoi per il carattere istrionico di Ottolini, vuoi per l’ironia di Bearzatti, il concerto ci aveva lasciato un saporino buono in bocca, saporino lasciato anche dal ricordo di una pizza pomodoro, acciughe, capperi, olive e peperoncino, proprio come piace a me, divorata in un localino per nottambuli poco distante dal teatro. Placati i morsi della fame, per la cena saltata, siamo risaliti in macchina diretti a casa.Scendevamo giù per i tornanti, proseguendo pian piano lungo la strada in discesa che serpeggiava tra vigne e oliveti, satolli nell’anima e nel corpo. Non c’era alcun bisogno di correre.Immersi nell’oscurità, a bordo dell’auto che scivolava lenta, eravamo presenti a noi stessi. Due entità separate io e Andrea, ma le nostre percezioni erano ben sintonizzate sullo stesso canale. Solitamente in questi momenti accade qualcosa.Solitamente l’impatto è drammatico e devastante, ma non quella volta. Nel cono di luce dei fari, una visione improvvisa. Un’immagine in bianco e nero si era venuta a creare. Un arco nell’aria: con tre balzi eleganti tre cerbiatti, si sono fatti avanti, uno dietro l’altro, esponendosi al rischio dell’attraversata. Il piede ancora sull’acceleratore. Non c’è stato bisogno neppure di frenare, da quanto andavamo piano. Puf… puf… puf…silenziosissimi, come su un tappeto di ovatta, hanno attraversato. I nostri sguardi si sono incrociati. Il fiato ci è venuto meno. Chissà quale messaggio volevano condurre a noi.
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© Marzia Pasticcini

22 gennaio 2012