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lunedì 10 giugno 2013

Ali di babbo

Leggerezza, semplicità, magia, sono gli ingredienti di questo piccolo romanzo che descrive, attraverso gli occhi di una quattordicenne, una Sardegna selvaggia che non vuole cambiare.
Abbandonata dal padre in tenera età, la ragazzina percepisce la sua presenza in una dimensione onirica e fantastica, nelle “ali di babbo” che assumono lenzuola, coperte, stoffe, mosse dal vento.
L’adolescente tiene un diario, in cui annota pensieri, avvenimenti che le accadono attorno; curiosa, osserva e descrive le persone che la circondano.
Tra queste, c’è Madame, la stramba vicina, proprietaria di terre e di un albergo di quattro camere che affitta ai turisti e che, con ostinazione, si rifiuta di vendere ad avidi costruttori, che vorrebbero stravolgere quell’angolo di paradiso con un incantevole sbocco sul mare, trasformandolo in un posto turistico. Così facendo però, Madame si priva di diventare ricca e fare una vita migliore. Madame è così chiamata perché sogna di andare a Parigi e, nel frattempo studia il francese.
Vive però dei pochi soldi che guadagna con l’affitto e dalla vendita dei prodotti agricoli che riesce a ricavare dalla sua terra.
La ragazzina osserva Madame, i suoi amanti, scene di sesso, gli amori un po’ strambi e i riti magici di Madame per farli stare in piedi. Madame crede nella magia e la dispensa in modi personali e approssimativi allo scopo di rendere la gente più felice, perché "senza la magia la vita è solo un grande spavento".

© Marzia Pasticcini
Lunedì 10 giugno 2013

domenica 9 giugno 2013

Mal di pietre

La complicità, la condivisione degli ideali e l'amore passionale, tanto sognato, arriva un po' tardi nella vita della protagonista, una donna sarda di quarant'anni, e in maniera inaspettata durante un soggiorno in uno stabilimento termale in Continente, per curare il "mal di pietre", i calcoli renali. Non ha figli perché la malattia di cui soffre la fa abortire durante i primi mesi di vita.
È in questo ambiente che la donna troverà il coraggio di tirare fuori l'emotività che le ha condizionato talmente la vita da farla apparire “matta”, perché essere persone troppo sensibili non rientra nella normalità.
Già a trent'anni il matrimonio le era apparso come una possibilità sfumata, perché la sua emotività faceva fuggire tutti i pretendenti eccetto un uomo, arrivato a Cagliari nel '43 dopo che la guerra gli aveva spazzato via la casa e la famiglia.

Vive nella casa della ragazza che sposerà per sdebitarsi con la famiglia di lei per l'ospitalità ricevuta.
I due coniugi non si amano, si danno del voi, non si conoscono neppure, non c'è molta confidenza tra i due sposi che se ne stanno nel letto l’uno distante dall’altro. Il marito soddisfa le sue esigenze sessuali nel bordello e allora la moglie, al solo fine di risparmiare i soldi delle marchette per comprare il tabacco della pipa che lui fuma, si sostituisce alle prostitute, come loro senza amore: “Così voi fumate la pipaNessuno mai ho visto fumare la pipa. ...Non dovete più spendere i soldi per le donne della Casa Chiusa. Quei soldi dovete spenderli per comprarvi il tabacco e rilassarvi e fare la vostra fumata. Spiegatemi cosa fate con quelle donne e io farò uguale”. (pag. 24).
Però l'amore vero, che fa battere il cuore, è quello per il Reduce, un uomo colto, passionale, incontrato durante il soggiorno alle terme, il cui ricordo non l'abbandona più e che l’unico modo per accettare la realtà è quello di trovare una via di sfogo, nell’idealizzare ciò che è il nostro massimo desiderio. E lo sfogo della donna è la scrittura, poesie e pensieri che lei scrive da sempre di nascosto, ma che aveva trovato il coraggio di condividere i suoi pensieri con il Reduce perché anche lui aveva una passione: suonare il piano, e la comprendeva.
Ed è attraverso la scrittura che la nipote (la voce narrante) viene a conoscenza della storia d'amore della nonna.
È per avere scoperto lettere d'amore infuocate che la ragazza aveva scritto ai suoi pretendenti che un giorno la madre, la bisnonna della narratrice, l'aveva aspettata in cortile con un nerbo di bue, pronta a colpirla fino a farla sanguinare e a farle venire le piaghe: “ i pretendenti andavano via perché nonna gli scriveva poesie d'amore infuocate che alludevano anche a cose sporche e che sua figlia stava infangando non solo se stessa ma, ma tutta la famiglia. E continuava a colpirla, a colpirla e a urlarle: 'Dimonia! Dimonia!' e a maledire il giorno in cui l'avevano mandata in prima elementare e aveva imparato a scrivere” (pagg. 11-12) . “D’altronde la nonna amava scrivere e aveva un quaderno, una sorta di diario, un quaderno nero bordato di rosso”.

© Marzia Pasticcini
Domenica 9 giugno 2013

domenica 17 marzo 2013

La camera azzurra


È arrivato il turno del terzo libro di Simenon: “La camera azzurra”. Un romanzo perfetto che ha contribuito alla Simenonite, contratta di recente e spero mi abbia lasciato sufficienti anticorpi letterari.
Seppur non originale come tema, la tecnica dell'autore nel disseminare informazioni con salti temporali a partire da flashback al momento presente della narrazione da parte del protagonista è sufficiente a spingere ad una lettura senza sosta, per vedere se i sospetti del lettore trovano conferma.
In sole 153 pagine, vediamo che pagina 1 è già successo molto e a pag. 51 è già accaduto tutto.
Tony vive una vita banale senza grandi scosse emotive. È sposato con Gisèle, una casalinga tranquille e ordinaria. Hanno una bambina: Marianne. Apparentemente una vita perfetta: ha una casa, un lavoro, una moglie Gisèle che ama e una figlia che lo fanno sentire sicuro e tranquillo.
Ma qualcosa manca nella sua vita: l'emozione che trova tra le braccia di Andrée, ex compagna di classe con la quale inizia una storia passionale che si consuma nella camera azzurra di un albergo del centro gestito dal fratello.
A complicare le cose c'è il fatto che anche Andrée è sposata, e Tony pian piano inizia a mentire, a complicarsi la vita per organizzare gli incontri clandestini con l'ansia di venire scoperto.
L'ambiente in cui vivono, non è di poco conto: la provincia francese dove tutti sanno tutto di tutti anche se fingono di non sapere.
Tony, preso dalla passione, non riesce a rendersi conto che Andrée è un'amante ossessiva che non rinuncia facilmente al progetto di una vita futura insieme. Quando se ne rende conto, è già troppo tardi, Tony vorrebbe troncare la relazione, ma Andrée ha decisamente altri propositi.

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 17 marzo 2013

mercoledì 27 febbraio 2013

Effimera felicità


Il Treno è il secondo romanzo di Georges Simenon che leggo. In una parola: bellissimo. Descrive la Storia che irrompe nella vita di gente comune, senza chiedere loro il permesso.
Il protagonista è Marcel Féron, un artigiano, riparatore di radio, il cui laboratorio occupa il piano terra del medesimo stabile dove vive con la famiglia – una moglie al settimo mese e mezzo di gravidanza e una figlioletta di appena quattro anni.
È il mese di maggio del 1940, i nazisti sono alle porte, minacciano i confini della Francia. Féron, come molti suoi compaesani, è costretto ad abbandonare la sua casa per mettersi in salvo con tutta la famiglia.
Sovraccarico di bagagli si dirige alla stazione dove prenderà d'assalto uno dei pochi treni ancora disponibili dopo che un ordine di evacuazione ha incalzato molti dei suoi compaesani a partire senza una destinazione precisa, se non mettersi in salvo sciamando verso sud con destinazione La Rochelle.
Costretto a viaggiare su un carro bestiame in compagnia di altri profughi che, come lui, il destino ha fatto deragliare dalla quotidianità, viene separato dalla moglie e dalla figlioletta che viaggiavano in un altro convoglio.
Durante il tragitto, il treno sosta più volte come abbandonato in mezzo alla campagna, subisce un bombardamento areo tedesco, viene più volte smembrato: il convoglio dove viaggiavano la moglie e la figlioletta è stato staccato dal treno, durante la notte e diretto in tutt'altra destinazione.
Sempre di notte, nella promiscuità dello spazio angusto, in mezzo a compaesani divenuti profughi, ogni convenzione sociale viene abbandonata e si consumano bisogni fisiologici e rapporti carnali.
Quando Marcel incontra la bella sconosciuta, nel suo stesso convoglio, non ci sono che sguardi tra loro ed è come se la sua famiglia fosse stata risucchiata nell'oblio.
Un po’ alla volta, senza che si siano raccontati le reciproche storie, i due diventano inseparabili, finché, durante la prima notte che passano l’uno accanto all’altra sulla paglia ammucchiata per terra, confusi fra altri corpi sconosciuti, accade l'immaginabile per Marcel, un tipo timido, mediocre e pudico. Da perfetti sconosciuti fino a poche ore prima, che ignoravano l'esistenza l'uno dell'altra danno inizio ad una passione amorosa senza limiti, una sorta di deragliamento emotivo che gli isola dal resto del mondo (l’occupazione tedesca, i convogli di sfollati, il centro di accoglienza che li ospita insieme ad altre decine di profughi), serrati in un universo tutto loro fatto di desiderio, di passione erotica, disperazione ed effimera felicità.
Per poche settimane sfuggono alla routine immersi in una bolla di amore e di passione erotica senza freni come solo può accadere quando si è in guerra: «Vivevamo un tempo di attesa, fuori dallo spazio, e io divoravo quei giorni e quelle notti con ingordigia».
Marcel nel suo diario confessione scrive: «Ero ingordo di tutto, dello spettacolo mutevole del porto e del mare, dei barconi da pesca di diversi colori che salpavano in fila indiana con l’alta marea, del pesce che veniva sbarcato nelle ceste o nelle cassette, della folla nelle strade, dei diversi aspetti del campo e della stazione».
«Ero ancora più affamato di Anna», racconta Marcel, «e, per la prima volta, nella mia vita non mi vergognavo dei miei desideri sessuali. Anzi, con lei era diventato un gioco che mi sembrava assolutamente puro. Ne parlavamo con gioia, con candore, inventando tutto un codice, adottando un certo numero di segnali che ci permettevano, in pubblico, di comunicarci i pensieri segreti».

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 27 febbraio 2013

domenica 10 febbraio 2013

Leggere e Scrivere: una malattia salvifica

«Non fa mai niente. Continua a leggere».
«D'altro non sa fare niente»
«È l'occupazione più inattiva che ci sia».
«È pigrizia».
«Legge, invece di...»
Tutti questi discorsi mi suonano familiari. Mi hanno rimproverato anche a me, da sempre di leggere “invece di... fare le pulizie, lavare i piatti della sera prima, di andare a fare la spesa, di lavare e di stirare i panni...”.
E ciò è bastato a rendermi simpatica e vicina questa autrice che con conoscevo.
In sole cinquantatré pagine è condensata la vita di una donna ungherese, esule, rifugiatasi nella svizzera francese di cui non conosce la lingua.
Nel 1956 – a soli 21 anni e con una figlia appena nata – è costretta a lasciare il suo paese di origine per evitare le persecuzioni politiche da parte dell'Armata Rossa, intervenuta per debellare la rivolta popolare contro l’invasione dell’Ungheria da parte dell'Unione Sovietica.
In Svizzera, Agota è costretta ad affrontare tante difficoltà, la prima delle quali: l'impossibilità a farsi comprendere in una lingua a lei estranea: il Francese. Ma lei pare non perdersi d'animo; affronta con grande coraggio la povertà, la fame, il freddo e la fatica del lavoro come operaia. Ma è proprio durante il lavoro ripetitivo in fabbrica che inizia a comporre poesie: “Per scrivere poesie la fabbrica va benissimo, si può pensare ad altro, e le macchine hanno un ritmo regolare che scandisce i versi. Nel mio cassetto, ho un foglio e una matita. Quando la poesia prende forma, prendo nota. La sera metto tutto a bella in un quaderno.” (pag. 41)
La letteratura nelle sue forme di scrittura e lettura è una malattia: “Leggo. È come una malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli occhi: giornali, libri di testo, manifesti, pezzi di carta trovati per strada, ricette di cucina, libri per bambini. Tutto ciò che è in caratteri di stampa.” (pag. 9), ma è una malattia salvifica, che dà un senso alla sua vita. e la trasformerà in una scrittrice di successo.
Tuttavia Agota continua a chiedersi: “Come si diventa scrittori?” (pag. 43).
La risposta interessa anche a noi amanti della scrittura:
“Prima di tutto, naturalmente, bisogna scrivere. Dopo di che bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno. Anche quando si ha l'impressione che non interessi mai a nessuno. Anche quando i manoscritti si accumulano nei cassetti e li si dimentica, pur continuando a scriverne altri.” (pag. 45)
Come sarebbe stata la mia vita se non avessi mai fatto  corsi di scrittura?
Non lo so, forse meno ricca di stimoli rispetto a quelli che ho ricevuto in questi anni. La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi modo i miei racconti onirici.

© Marzia Pasticcini
10 febbraio 2013

lunedì 28 gennaio 2013

Sprofondare insieme fino all'estremo limite dell'abisso

I complici è il primo romanzo di Georges Simenon che leggo e mi dispiace non averlo scoperto prima, tanto ero condizionata dall'immagine televisiva del Commissario Maigret. Ma i romanzi con i commissari non mi stimolano più di tanto, non mi sono mai piaciuti molto. Anche se per qualcuno, quella che sto per dire sarà una sottigliezza – una questione di lingua o di colore (intendo il colore giallo o nero della copertina) – per me non lo è affatto: alla ricostruzione dei fatti, ho sempre preferito l'atmosfera noir dei momenti che precedono la tragedia. Una tragedia inaspettata che accade e travolge la vita e il destino di persone normali che vivono una vita ordinaria senza alti né bassi, ignari del fatto che stanno per attraversare una soglia. Una soglia che li condurrà inevitabilmente verso un baratro. E quando poi se ne accorgeranno, sono ben oltre, in caduta libera nell'abisso.
E in caduta libera è Joseph Lambert, il protagonista, dalla coscienza sporca che tenta di nascondere pure a se stesso l'incubo e il senso di colpa che lo tormenta.
Joseph Lambert è un imprenditore, un borghese di provincia, stanco della moglie e un gran donnaiolo, ha una relazione con la sua segretaria-amante: Edmonde Pampin, diventata sua complice dalla sera in cui, guidando a zig zag con la mano destra fra le cosce di lei, sente dietro di se il clacson di un pullman che sta riportando a Parigi i bambini di una colonia estiva. Lui – con l'auto piazzata in mezzo alla carreggiata, sotto la pioggia sferzante – sterza cercando di raddrizzare la Citroen, ma non ci riesce, l'asfalto è scivoloso. Il pullman che procede a gran velocità riesce a passare lo stesso.
I due non si voltano, nella loro freddezza vanno avanti, non si fermano,neppure quando lo specchietto retrovisore rimanda la scena del pullman che si schianta contro un muro in un rogo mostruoso.
Edmonde rappresenta per Joseph la via di fuga dalla sua quotidianità.
Il rapporto di intimità instaurato tra loro non è dato solo dal piacere carnale, fisico, immediato. Joseph crede di aver trovato nella ragazza "ciò che aveva sempre cercato per tutta la vita” e che nessuno, né la famiglia, né la moglie Nicole, gli aveva mai dato.
"Il gioco segreto tra i due aveva le sue regole, i suoi segnali, i suoi riti consacrati”.
Dice il narratore: "Non erano innamorati,ma solamente complici in un mondo diverso, e quel mondo assomigliava più a quello dell’infanzia che non a un mondo maledetto”.
Con lei desidera sprofondare fino all'estremo limite dell'abisso, ha fame di lei, del suo sesso e delle fasi misteriose del suo piacere (p 129), gli resta solo questo, quello che era un loro diritto, prendere il volo, saltare in un'altra dimensione (p 132).

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 28 gennaio 2013

domenica 13 gennaio 2013

Letteratura Partecipativa sull'orlo del piacere

Si parla di “letteratura performativa” in questa storia di appena cinquanta pagine. Non è un romanzo e neppure un racconto. È una lettera destinata ad una giovane donna in viaggio in treno da Parigi a La Rochelle. Su precise istruzioni, compra un copia di "Le Monde" di quel Sabato 20 luglio e sale sul treno. Si siede nel posto prenotato, apre il giornale. È una lettera per lei, una lettera così  provocante e sensuale da poter finire in mano ai 600.000 lettori di “Le Monde”.
La voce del narratore si esprime in seconda persona, un tu confidenziale che le detta le regole del gioco: un invito a pensare, visualizzare e compiere gesti erotici, dove l'eccitazione non sta tanto nel gesto in se stesso, ma nel suo procrastinarlo, per fermarsi sull'orlo del piacere.
Il narratore le impone di fermarsi nella lettura, per un tempo preciso, scandito dall'orologio, ad un'ora e minuti precisi che corrispondo a una tappa del percorso: “Se tutto è andato per il verso giusto, se hai rispettato i tempi indicati, tu stai leggendo questa pagina oggi sabato 20 luglio verso le ore 16.15, e il treno è appena ripartito dopo la fermata di Poitiers.”.
Leggere è come annullare lo spazio e il tempo, portando in contatto scrittore e lettore in un tempo altro, un eterno presente: “Io l'ho scritta a fine maggio, prima di partire per la Russia. Ho scritto a “Le Monde” di fissare la data di pubblicazione”.
Ogni buona storia ha un tempo e uno spazio ben definito. Scrivere e leggere è in definitiva come viaggiare: cosi come al treno che sta giungendo a destinazione, rimangono tre quarti d'ora di viaggio, allo scrittore 5000 caratteri dei 35000 concessi.
Una lettura partecipata da altri lettori di "Le Monde" che viaggiano nel medesimo convoglio e che condividono la medesima esperienza della destinataria della lettera.  Sono anche loro i protagonisti: i viaggiatori di quel treno TGV Parigi-La Rochelle delle ore 14:45 di quel sabato 20 luglio descritto nella storia che stanno leggendo e vivendo, come lo sono del resto anche i lettori del romanzo.
Troppi personaggi ha questa storia, lamenta ad un certo punto il narratore, più avanti nel testo, che non riuscendo più a controllare, decide di lasciare la presa. Però la storia procede comunque e lui, lasciandosi trasportare dall'immaginazione, dà loro libero arbitrio e la richiesta-invito per un sequel performativo e/o interattivo.

® Marzia Pasticcini
Certaldo, 13 gennaio 2013

mercoledì 5 dicembre 2012

La risposta araba alle cinquanta sfumature

La storia è il viaggio iniziatico di Leila, che con l’aiuto della zia Zobida, una vedova di mezza età, guaritrice e dalla doppia vita, fugge dal villaggio nativo, dopo aver rischiato di essere ripudiata dal marito e dalla famiglia di lui perché, la prima notte di nozze,  l’imene non ha sanguinato. L’inesperienza del marito e la tensione e la paura della ragazza hanno contribuito affinché la "gatta" o  la “mandorla” della ragazza non si aprisse.
La zia ha una storia sessuale segreta e decide di “istruire” la ragazza lontano dall’ambiente severo e bigotto del villaggio,  rivelando ai suoi familiari che la ragazza non  può essere penetrata a causa di un incantesimo fatto fare dalla madre della ragazza, ora defunta. Una fattucchiera ha “sigillato” l’imene di Leila, che ora può essere riaperto solo da quella stessa maga. Durante il tragitto attraverso il deserto africano e di villaggio in villaggio. Leila verrà iniziata ai piaceri del sesso.
Durante il viaggio Leila incontrerà altre donne e l'ascolto dei loro racconti, delle loro storie di dolore, romperà la solitudine e il divario tra le loro esperienze individuali. Recidendo i legami con il passato e le tradizioni imposte dalla religione imperante, la giovane Leila riuscirà  a dare un senso alla sua vita e a formarsi come persona e come donna.
L'autrice, di cui si ignora, volutamente, l'identità, tenta magistralmente di riannodare i fili con le tradizioni dell'antica civiltà araba felice e sensuale. La traversata dei sensi è un racconto erotico, dolce e coinvolgente, un atto di coraggio, di ribellione e libertà, per ridare alle donne una voce ancora oggi negata.

Certaldo, 5 dicembre 2012
Marzia Pasticcini

lunedì 29 ottobre 2012

Sono le storie a dare sapore alle cose


"Il desiderio è il solo motivo per cui andiamo avanti in mezzo a tanto orrore. Tutti abbiamo bisogno di una passione, o di un'ossessione. Cerca la tua. Desiderala fortemente, e fa' della tua vita la ragione stessa per cui vivi."
"Come faccio a sapere se la mia ossessione o la mia passione è quella giusta?..."
"Perché se la racconti a qualcuno e questi la trova interessante, allora saprai che non hai vissuto invano. Ricorda, figliolo: sono le storie a dare sapore alle cose."
Fantastico libro. dico solo questo: 
Semplicemente F A N T A S T I C O  e 
F A N T A S T I C O chi me lo ha consigliato e poi prestato.
Grazie infinite.

Marzia Pasticcini
Certaldo, 29 ottobre 2012

sabato 29 settembre 2012

Francesco d'Assisi e la Fisica Quantistica

Francesco Pandolfi Balbi, o come piace chiamarlo a me: Francesco d'Assisi, è sceso dal Monte Subasio, dopo un ritiro durato, se non erro, alcuni anni. Personaggio eclettico con la passione per l'informatica, la Fantascienza, il Mistero, la Fisica quantistica, in modo particolare le teorie olografica di David Bohm e del Superspin di Malanga-Pederzoli, la Filosofia, la Metafisica; è amante della spontaneità e dei semplici piaceri della vita di cui la scrittura occupa una parte preminente, in quanto generatrice di  bellezza e armonia.
Scrive di tutto, s''interessa di tutto, dalla tutela  dell'ambiente e del benessere fisico e interiore dell'Uomo alla  natura della vita e dell'esistenza di cui è un grande osservatore. Egli stesso si definisce un visivo-cinestesico ed enneatipo quattro conservativo, ma con queste auto-definizioni, si aprirebbe un capitolo di psicologia del profondo di difficile gestione. Comunque i  suoi interessi sono molteplici e lo portano talvolta  oltre i confini della realtà: vi invito a visitare  il suo sito: http://www.poterepersonale.it.
Di carattere un po' schivo e di  animo anarchico (E' un Ariete), una volta vinta la sua diffidenza nei confronti di Facebook, e ripresi i contatti con l'umanità, ha finalmente dato sfogo alla sua grafomania, grazie anche alla sua esperienza di editore e webmaster che lo ha portato alla quinta riedizione del romanzo "Nulla mai finisce" uscito per la prima volta con il titolo "Chiaraluna". Non ho fatto a tempo a rileggere la precedente edizione, chissà cosa avrà cambiato del romanzo e della trama.
Sinossi: Una serie di eventi apparentemente casuali trasforma la società globale – generatrice di sofferenza e fondata sui giochi di potere – in una dimensione fortemente naturale e a misura d'uomo . Nasce il mondo per 

il quale – pur non avendolo mai conosciuto – molti provano da sempre profondissima nostalgia.

L’apparente   tranquillità  dell’atmosfera   che  regna   nelle   prime  pagine preannuncia, però, un forte trauma planetario accompagnato  da  morte e sofferenza.
Nulla di nuovo all’orizzonte, si dirà. Eppure questo libro continua a piacere non solo a molti lettori di romanzi d’avventura, ma anche e soprattutto a chi ama riflettere sulla natura della vita, dell'Uomo, dell'universo.
L'apparenza, quindi, è quella di un romanzo avvincente, mentre la sostanza inneggia alla vita e contribuisce a una visione più piena dell'esistenza umana.
Cosa ci si può aspettare da un autore di fantascienza se non il genio che precorre i tempi: l'aeromobile di sua invenzione è stata descritta prima da lui poi l'ho vista realizzata e pubblicizzata sul sito della Fondazione Keshe; quella vera di Keshe, pare voli, plani e funzioni ad energia antigravitazionale al plasma (http://www.facebook.com/pages/Keshe-Foundation/126388777468892). Francesco l'aveva descritta nel suo romanzo che poi, lui non scrive mica romanzi, ma saggi travestiti da romanzi - vedere qui per credere: http://www.nullamaifinisce.it/. In fondo, se non erro,  il titolo stesso ricalca la prima legge della termodinamica: "Niente si crea e niente si distrugge!". Ma cosa avrà cambiato in questa ultima edizione?

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 29 settembre 2012

mercoledì 22 agosto 2012

L'ombra del vento

“Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie ad esso”.
Nella Barcellona misteriosa del 1945. Daniel Sempere, il figlio undicenne di un libraio, adotta un libro: "L’ombra del vento", un libro che rapisce l'attenzione del piccolo Daniel e lo difende con tutte le sue forze. Questo luogo di cui Isac Montfort è il custode, è il labirintico Cimitero dei libri dimenticati.
Come potevano queste poche righe non rievocare un mio sogno di qualche tempo fa:
“In una casa strana e misteriosa che non so se sia appartenuta a mia nonna, seguo il padrone di casa che si avvia, facendomi strada, in direzione del salottino dove tengono i libri. Il marito bussa andando nel salottino dei libri, perché lui ha rispetto per le anime dei poeti e degli scrittori defunti. Ma non c'è nessuno oltre la porta. Io lo so”.

Le anime degli scrittori sono vive ed è possibile incontrarle e dialogare con loro nell'eterno presente della scrittura e della lettura; l'anima dello scrittore vive e rivive, ogni volta, nel momento in cui un lettore ne segue le parole, i pensieri e le emozioni.
Thriller ed horror si mischiano in questa atmosfera magica e un po' gotica di una Barcellona ammaliante.
Daniel legge il libro tutto d'un fiato appassionandosi a tal punto da rimanerne ossessionato.

Infatti nella disperata ricerca di altri libri del medesimo autore, Julian Carax, scrittore maledetto, che pare sia scomparso e non rintracciabile, Daniel scopre che la copia di cui è in possesso è l'unica esistente, perché qualcuno sta cercando e bruciando le copie di ogni opera di Carax.
La sua esistenza si intreccia con quella dell'autore in una storia enigmatica ed appassionante senza eguali, tale da cambiare la vita sia del protagonista che dei lettori.

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 22 agosto 2012

Quello strano sentore che viene dal passato


Ho appena finito di leggere un libro da cui sono stata risucchiata non appena vista la copertina e sbirciato la trama riassunta sul retro. Sin dalla prima pagina, si percepisce una strana aria e l'olfatto è il motivo ricorrente che tiene tutta la storia insieme.
E' come se fossimo penetrati in un Bildungsroman (Romanzo di formazione) dalle tinte fosche, perché incontriamo un adolescente che vive in un orfanatrofio, per poi precipitare in uno strano incubo.
La storia si svolge a Barcellona tra la fine degli anni '70 e inizio anni '80, ma subito dopo veniamo sprofondati in un altro tempo e in un'altra epoca dove il cuore della vicenda che coinvolge emotivamente il protagonista ha avuto inizio e questa atmosfera di "altro tempo" continua ad esercitare la sua influenza in maniera pregnante perché non c'à niente nella narrazione che richiami qualcosa degli anni '70/'80.
Per tutta la durata del romanzo, si respira un'aria di noir frammista a tonalità cupe che pian piano scivolano nell'horror di quei vecchi film americani in bianco e nero. Il titolo è Marina, l'autore è Carlos Ruiz Zafon.



© Marzia Pasticcini
Certaldo, 22 agosto 2012

martedì 21 agosto 2012

Morte dei Marmi


Ho appena finito di leggere un libro che mi ha prestato un mio carissimo amico. L'ho praticamente letto in un pomeriggio e me ne rammarico. Troppo poco tempo per un racconto così esilarante. Però è un testo che non puoi leggere in solitudine, va condiviso, letto ad alta voce, in compagnia, perché è pura oralità. Mi ha dato l'impressione di una conversazione con qualcuno che non vedevi da tempo incontrato al tavolino di un bar.
Seduto al tavolino c'è Fabio Genovesi i cui aneddoti non ti stancheresti mai di ascoltare:
“Noi quando sono arrivati i russi non ce ne siamo mica accorti. Nessuno ci aveva detto dei nuovi ricchi post Unione Sovietica, dei magnati di gas e petrolio. Per noi i russi erano un popolo fiero e modesto, e insieme meschino e invidioso, tutto preso a portare avanti una causa comune che era quella di regalare il paradiso socialista al mondo intero oppure di affogare il pianeta sotto le bombe nucleari. E intanto, nel tempo libero, giocavano a scacchi e leggevano romanzi difficili e si sfondavano di vodka per digerire le cene a base di bambini. Ecco perché i primi russi al Forte sono arrivati senza che ce ne accorgessimo. Perché nessuno li considerava russi”.
I vecchi del paese, quando sono arrivati i russi, non riuscivano a capacitarsi cosa avessero mai mangiato, quattro persone, per avere speso in un ristorantino del posto undicimila e trecento euro. Comunque i vecchi del posto, dice Fabio, non ci dormivano la notte, anche perché loro stessi erano dei gran mangiatori e bevitori, ma una cifra così non l'avevano mica mai spesa.
Anche io dei russi non me ne sono accorta, perché per me gli abitanti del Forte erano Adriana, la mamma della mia amica del cuore Mariacristina, Adriana che parlava con quell'accento strano... con le D al posto delle T, e il bel bagnino biondo, alto e muscoloso nonché campione di Surf che poi la mia amica si è spostata. Ricordo che abitavano in un monolocale sovrastante il loro stabilimento balneare. Ora hanno tre figli e un palazzo a tre piani, un piano per ogni figlio il più piccole dei quali, se ben ricordo, condivide con i genitori l'appartamento al piano terra,. Forse i russi, ora che ci penso, sono passati anche da loro.
Per quanto mi riguarda ero rimasta al film “Sapore di Sale”. Io non credevo che i “Signori", milanesi e i turisti del Forte, come si vedono nei film di Vanzina, fossero veri. Mi ci voleva Genovesi per confermare questo mio sospetto.
Quindici anni fa ero incinta di mia figlia, ed ero al Forte alla cena del Vernissage della mostra di Aldo Mondino. Al mio tavolo si siedono dei milanesi e altra gente vip, spiccicati sputati come nei film di Vanzina e come descrive Genovesi.
Mi ricordo che un tipo accanto a me, mentre era ancora nella galleria, telefona a una tipa invitandola ad un aperitivo e forse anche alla cena.
Dopo neanche due ore, questa si presenta con una mercedes. Una tipa esageratamente chic,  tacco 15, bocca e unghie rosa schoking, bionda e col mercedes parcheggiato di fronte al ristorante comincia a battere le unghie sul tavolo e fa "Vacanze-...." dove andate in vacanza?".
Insomma era partita da Milano per un semplice aperitivo, e poi al ristorante, trovava qualsiasi pretesto per far portare indietro al cameriere i piatti che aveva ordinato o perché c'era il tartufo che a lei non piaceva, o perché era allergica al formaggio.
Mi ricordo che disse: “l'uomo più interessante della serata oltre Mondino è Andrea. Ma ha la moglie incintissima”.
Per me Forte dei Marmi sono sempre state le vetrine e tutta questa fauna sfarzosa.
Genovesi in proposito dice: “... su Forte dei Marmi si è abbattuto uno tsunami di denaro. ...e  se poi per disgrazia viene fuori che a Forte dei Marmi ci hai pure fatto il liceo, allora davvero ti guardano come se gli dicessi che ti sei laureato a Gardaland”.
Se poi gli chiedi dove vivi? Lui risponde: “Io vivo a Morte dei Marmi. Anzi no, a Forte dei Marmi. Perché un paese non è morto se ancora ci vive qualcuno”. E' vero, perché Genovesi la sua casetta non l'ha data via, ma se l'è tenuta per se.

© Marzia Pasticcini
Certaldo, 21 agosto 2012