In vacanza con Andrea pernottiamo in una struttura che ricorda vagamente un ostello.
È notte, sto attraversando un vasto corridoio quando nel voltarmi noto una bambina piccola, scalza, un vestitino di maglina sbracciato e molto corto che lascia scoperte le gambine. Avanza piagnucolando, chiamando la mamma con le braccine tese in alto per farsi prendere in collo.
La tiro su e lei mi si avvinghia al collo e alla vita e mi stringe forte.
Nella stanza attigua: un dormitorio avvolto nell'oscurità, tra il dormiveglia delle sagome supine, una non si muove. È avvolta in una coperta come un sudario. Tra i fruscii delle coperte, i rumori e i suoni di chi si è appena destato, si ode qualche voce soffusa.
"Eh... se la mamma è morta..." mi pare di sentire.
Mentre stringo a me quel soffice e caldo corpicino e muovo alcuni passi verso il centro della casa, ho come l'impulso improvviso a volerla adottare.
Con questo pensiero, avanzo verso l'interno di una stanza dove, quasi a formare un semicerchio, su un divano e due poltrone frontali, siedono quattro donne tibetane molto in là con gli anni, coi loro copricapo colorati e ampie variopinte mantelle.
Mi avvicino.
Avanzo verso la più anziana che siede sulla poltrona di destra, col corpo e con lo sguardo rivolti verso di me.
Stacco la bimba dall'abbraccio e gliela porgo, mentre la piccola, con lo sguardo rivolto ancora a me, si divincola piagnucolando e implorando il nome della mamma.
È in quel momento che sento che la cosa non mi appartiene, siamo in vacanza, non c'è ne possiamo occupare.
E un senso di colpa e la necessità del distacco si sovrappongono.
Gliela affido.
La vecchia tibetana accoglie la bimba tra le sue braccia e l'avvolge nella sua morbida, calda, ampia mantella.
©️ Marzia Pasticcini
5 maggio 2023
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